Skip to content
Publicly Available Published by De Gruyter June 21, 2023

Un commento di età imperiale al libro secondo dell’Etica Nicomachea. Traduzione con introduzione e note

  • Carlo Natali EMAIL logo
From the journal Elenchos

Abstract

We present here the first translation into a modern language of the anonymous commentary on the second book of the Nicomachean Ethics. It is an evidence of the style of exegetical work that was being done in the Peripatetic schools during the 2nd–3rd century AD, and a testimony to a particular version of 2nd century Aristotelianism. Even if the comment is not continuous, one gets the impression of listening to a good lecturer illustrating Aristotle’s text. He paraphrases it at times, makes comparisons with other passages of the corpus, illustrates the structure and the logic of the discourse, and shows the difference between Aristotle’s positions and those of other schools. In the most theoretically interesting parts of the commentary the anonymous discusses aporiai, and opposes Aristotle’s ethical theories to other schools, especially to the Stoics.

1 Il testo

Quella che segue è, se non vado errato, la prima traduzione in una lingua moderna del commento anonimo al libro secondo dell’Etica Nicomachea (EN) di Aristotele, pubblicato da Gustav Heylbut nella serie dei Commentaria in Aristotelem Graeca (CAG) sulla base del codice Parisinus Coislinianus 161[1] e dell’edizione Aldina dello stesso testo (Venezia 1536).[2] Il codice contiene un commento di vari autori che copre l’intera EN e che mette insieme testi di epoche diverse, redatti nello spazio di undici secoli, a partire da Aspasio (inizio II secolo) fino a Michele di Efeso ed Eustrazio (secolo XII). Questa compilazione deve essere stata messa insieme a Bisanzio nella prima metà del XII secolo, verosimilmente su suggerimento di Anna Comnena; fu tradotta in latino nel medioevo da Robert Grosseteste, vescovo di Lincoln, intorno al 1240 (Mercken 1973, 39*–42*; Id. 1991, 3*; 21*–26*; 34*–45*), e vi è anche una bizzarra traduzione rinascimentale di Giovanni Bernardo Feliciano, pubblicata nel 1541 e più volte ristampata (Felicianus 2006).[3]

Nella serie Ancient Commentators on Aristotle, curata da R. Sorabji e M. Griffin, sono state tradotte in inglese le parti finali di questo commento composito: il commento di Aspasio al libro VIII e quello di Michele di Efeso al libro IX per opera di D. Konstan (Konstan 2001); il commento di Michele di Efeso al libro X per opera di J. Wilberding e J. Trompeter (Wilberding 2019).

Il brano qui tradotto è la prima parte di una sezione particolare della raccolta, che contiene l’esegesi dei libri II–V e risale alla fine del II secolo d.C. (Mercken 1991, 3*). Essa è stata definita da Mercken “a collection of scholia” (1973, 14*), anche se altri preferirebbero parlare di “a commentary consisting of a short notes” (Dickey 2007, 11 e 65 n. 32), a seconda di una accezione più larga o più ristretta del termine scholion. Lo stesso Mercken, cui si deve l’analisi migliore di questa sezione, la descrive nel modo seguente:

The strict Aristotelian character of the scholia suggests that their final form dates from the period before the school was to all intents and purposes absorbed in Neoplatonism (Mercken 1973, 14*–15*).

Si tratta quindi di un testo molto interessante sia per la datazione sia per la tendenza filosofica dell’autore, o degli autori. La datazione proposta da Mercken si basa, oltre che sullo stile filosofico, anche su alcune citazioni, in particolare quelle di autori del II secolo come Luciano di Samosata ed Attico. Esse si trovano nei commenti al libro III e al libro V (156, 13; 248, 26), testi di cui non mi occuperò direttamente in questa occasione. Quanto al fatto che essi siano stati compilati da una sola persona non è da escludersi ma, come vedremo, il testo presenta doppioni e ripetizioni che fanno dubitare sia opera di un solo maestro.

Su questo testo non vi è una grande bibliografia: fu utilizzato da Michelet che lo cita ampiamente (Michelet 1835); poi è stato studiato da Moraux (2000, 243–4 e 312–8), e più recentemente da Mercken. Moraux ipotizza che l’Anonimo abbia ripreso le notizie erudite, che presenta qua e là nel testo, da uno scritto di Adrasto di Afrodisia sul Peri ēthōn di Teofrasto e sull’EN di Aristotele, in cui si chiarivano le allusioni storiche e letterarie delle due opere.[4] L’ipotesi di Moraux non va senza certe difficoltà cronologiche, come quelle derivanti dalla citazione di Luciano di Samosata, come riconosce lo stesso autore (314, n. 117). Per il resto, Moraux sostiene che “nell’interpretazione del ragionamento e del contenuto filosofico dell’opera l’autore non va quasi mai al di là di una riproduzione parafrastica dell’originale” anche se “la sua esegesi non va sottovalutata” (313). Il giudizio poco lusinghiero di Moraux è stato seguito da molti di coloro che hanno citato questo testo, con maggiore o minore attenzione.

Successivamente solo singoli brani di questo commento hanno attirato l’attenzione degli studiosi. F. Becchi ha individuato in vari passi una certa somiglianza con i Magna moralia: entrambe le opere mostrerebbero una tendenza ad aggiornare la dottrina aristotelica sotto l’influsso di Teofrasto e in funzione antistoica (1980, 220–5). J. Barnes, nel corso di una rassegna delle discussioni ellenistiche sul sorite, ha indicato nell’Anonimo la presenza di un approccio empiristico al dilemma (1983, 60 n. 83). Ci torneremo sopra. Più di recente E. Eliasson ha sostenuto, sulla base dell’esame di due passi, uno dal commento del libro II e uno dal commento del libro V, che l’Anonimo presenta un interessante e originale sviluppo della posizione di Aristotele sul volontario e la virtù (2013, 202).

In generale, e contrariamente all’opinione di Moraux, ad un’osservazione attenta le analisi e gli argomenti dell’Anonimo si rivelano di buon livello e costituiscono una importante testimonianza di una versione particolare dell’aristotelismo del II secolo, come cercherò qui di mostrare. Mi pare interessante esaminare con un poco di attenzione questo testo, come testimonianza dello stile di lavoro esegetico che veniva fatto nelle scuole Peripatetiche nel corso del II–III secolo d.C. Infatti, eccettuato il commento di Aspasio, le altre testimonianze sull’etica peripatetica di età imperiale o sono frammenti, come quelli di Boeto di Sidone, o derivano da fonti essenzialmente dossografiche, rivolte a esporre l’etica aristotelica in forma sistematica, piuttosto che a esaminare i problemi che nascono dalla lettura diretta delle opere del maestro (Sharples 1990, 5–6). Tramite la lettura di questo commento ci troviamo trasportati nel vivo del dibattito che si svolgeva, sia tra le scuole, sia all’interno della scuola peripatetica stessa, in questo periodo.

Ciò può essere interessante in un periodo come l’odierno, in cui gli studi sull’aristotelismo di età imperiale e sull’etica peripatetica trovano un nuovo e importante sviluppo, soprattutto grazie alla raccolta di testi di Sharples (2010), ai lavori di Chiaradonna and Rashed (2020), Rashed (2021) ed agli studi di Inwood (2014) e Baltussen (2016, cap. 4).

2 Struttura e metodo del commento

Il commento si estende per diciannove pagine (CAG XX, 122–140), e copre i punti più importanti del libro II dell’EN. In confronto il commento di Aspasio allo stesso libro, che dovrebbe essere di poco precedente (Moraux 2000, 221), occupa ventuno pagine (CAG XIX, 37–57), di cui però circa cinque (42, 27–47, 2) sono dedicate ad una digressione sulla definizione della passione nella storia del Peripato, e in cui pare essere andato perso il commento dei brani da 1104b9 a 1106b1. Nelle parti comparabili, cioè per quanto riguarda il commento da 1103a15 a 1104b9 e quello da 1106b1 a 1109b26, le due opere sono di lunghezza pressoché simile, cinque pagine per 1103a15–1104b9, in entrambi i commenti, e, per il brano 1106b1–1109b26, contro undici pagine di Aspasio abbiamo poco meno di otto pagine per l’Anonimo. Quindi il commento al libro II dell’Anonimo non è molto più breve di quello di Aspasio, e non può essere descritto solo come una serie di brevi annotazioni. Torneremo più avanti al confronto con Aspasio.

Strutturalmente, il commento anonimo nella sezione che ci interessa si divide in una serie di discussioni abbastanza lunghe e dettagliate, cui fanno seguito di volta in volta gruppi di brevi annotazioni, principalmente dedicate al linguaggio e al modo di esprimersi di Aristotele: 126, 15–24; 128, 9–20; 129, 3–7; 132, 26–133, 7. Questo modo di procedere, che separa discussioni generali e commenti sui dettagli, potrebbe sembrare un’anticipazione della distinzione tra theōria ed esegesi kata meros, che sarà istituzionalizzata nei commenti neoplatonici più tardi (Viano 2006, 52–5); ma mentre nei Neoplatonici l’esegesi kata meros ripercorre i testi già discussi nella theōria, qui le annotazioni brevi riguardano testi successivi a quelli spiegati nelle note lunghe, quindi l’andamento del commento è piuttosto sussultorio, con passi discussi a lungo e passi appena toccati dall’esame, o ignorati del tutto. Tutto l’insieme ha l’aspetto di una serie abbastanza discontinua di annotazioni sparse al testo di Aristotele, come diceva Dickey.

Nel commento ad EN II non vi sono molte note erudite, troviamo solo una citazione di Euripide (122, 10–11) e una nota dettagliata su Milone, atleta di cui Aristotele si limitava a fare il nome (132, 13–25). Altri riferimenti, ad Eraclito (128, 28), ai Pitagorici (125, 2, 3; 132, 16; 133, 1–4) e ad Omero (129, 31) sono tratti direttamente dal testo di Aristotele.

Le citazioni erudite si sprecano invece nei commenti ai libri III–V, in cui sono citati Zeus, Eracle, Teti, Radamanto, Omero, Esiodo, Teognide, Epicarmo, Eschilo, Euripide, Zenone di Elea, Antistene, Socrate, Platone, Eraclide Pontico, Teofrasto, Epicuro, il platonico Aristonimo (?), Attico, Pericle, Isocrate, Anassimene oratore, Androzione, Eforo, Cefisodoro, Erodoto, le Elleniche e la Costituzione degli Spartani di Senofonte, le Storie di Callistene, Luciano, e tutta una serie di popoli, Troiani, Ateniesi, Tebani, Beoti, Anfipolitani, Persiani, Lacedemoni, Mitilenesi, Messeni, Argivi; ad un certo punto fanno la loro apparizione anche i Romani, descritti in modo non molto lusinghiero, insieme a tutti gli Occidentali, come esempio di popoli thumoeideis, impetuosi e iracondi (166, 4–5).[5] La frequenza di questi riferimenti eruditi nella discussione di EN III–V si deve probabilmente anche al contenuto di questi libri, in cui si prendono in esame, per prima cosa, la nozione di “ciò che dipende da noi”, e poi tutte le virtù particolari. Aspasio al contrario rinuncia a introdurre informazioni di tipo storico o letterario (Mercken 1973, 29*).

Nelle sezioni più lunghe e dettagliate del nostro testo si incontrano dei doppioni, cioè delle sezioni che ripetono con altri termini e altre idee il commento a sezioni già discusse. Il caso più chiaro è proprio all’inizio del commento: dopo avere discusso la sezione di EN 1103a15–b26 alle pagine 122, 1–124, 14, il commento da 124, 15 a 125, 5 ricomincia a discutere il testo a partire da 1103a15, citando di nuovo gli stessi passi di EN II: 1103a15 è citato a 122, 1–2 ed a 124, 17; 1103a16 a 122, 7 ed a 124, 22 e 27.

Un altro caso di doppione si trova a 126, 24–29 e 30–35. In questo caso vi è anche una differenza di dottrina, infatti a 126, 31–35 si dice che le passioni sottostanno come materia solo alla virtù della temperanza, e per le altre virtù il rapporto è diverso, mentre a 127, 4 si dice che piacere e dolore sottostanno come materia a tutte le virtù. Altri possibili doppioni sono a 131, 4; 133, 22–24 e 24–26; 140, 11–12 e 13–14.

Questi doppioni non sono molti e per lo più non vi è una grande differenza di dottrina tra di essi. In questa introduzione con il termine ‘l’Anonimo’ indico quindi il gruppo di autori cui si devono queste annotazioni.

Invece non sono da considerarsi doppioni, a parer mio, ed a differenza degli scolii veri e propri, i brani in cui l’Anonimo presenta differenti spiegazioni della stessa frase, come alle righe 123, 11–13, in cui si presentano vari sensi dell’espressione phusei; qui l’autore sta discutendo quale dei vari sensi dell’espressione in Aristotele è più adatto a spiegare questo il brano 1103a19, e il passo è stato chiaramente scritto da una sola persona.[6]

3 Il contenuto. Osservazioni generali

L’Anonimo ha cura di situare il libro secondo nel contesto generale dell’EN, infatti cita il primo libro (tou prōtou 124, 15, en tōi prōtōi 126, 1) come precedente e il sesto libro (en tōi hektōi 125, 30) come successivo. Egli considera l’EN come composta di dieci libri, compresi i libri comuni; non differisce in questo da Aspasio, nonostante a volte si sia sostenuto il contrario.[7]

È da notare che l’Anonimo indica i libri dell’EN con i numerali e non con le lettere dell’alfabeto, infatti si serve della parola: ‘primo’, ‘sesto’, e non del numero relativo.[8] Anche Alessandro segue la stessa prassi: per quanto riguarda i libri dell’EN, nelle Questioni di etica si legge: en tōi ebdomōi (127, 29; 134, 31), en tōi prōtōi (138, 7), etc., e lo stesso si legge nei commenti: en tōi prōtōi (In Top. 247, 10; In Metaph. 169, 1; 209, 13); en tōi tritōi (In Top. 163, 12).[9]

Nella maggior parte dei commenti di Alessandro i vari libri delle opere di Aristotele sono indicati con i numerali,[10] ma nel commento dello stesso Alessandro alla Metafisica si affiancano la distinzione per mezzo dei numerali e quella per mezzo delle lettere dell’alfabeto greco: ad esempio il primo libro può essere indicato sia con en tōi prōtōi (146, 11; 196, 20, 25, 31; 197, 3; 235, 6; 266, 14; 291, 31; 327, 26; 400, 7) sia con en tōi meizōni A (176, 9; 184, 15; 197, 22; 374, 33; 172, 20). Vi è anche un passo in cui le due distinzioni appaiono l’una accanto all’altra: en tōi prōtōi tōi meizoni A (201, 18–22). Lo stesso vale, in questo commento, per la Fisica (en tōi prōtōi 31, 7; 44, 16; 61, 5; 97, 26; en toi A 159, 26; 179, 33; 223, 28; 334, 16; 348, 29; 357, 18), il De caelo (en tōi tritōi 67, 14; en tōi Γ 382, 25), i Topici (en tōi tetartōi 381, 12; en tōi Δ 408, 23) etc.

Questi passi dell’Anonimo e di Alessandro suggeriscono che in età imperiale si usavano i numerali per distinguere i libri delle opere di Aristotele, a volte affiancati da una distinzione basata sulle lettere dell’alfabeto.[11] Invece secondo Simplicio: “I Peripatetici avevano l’uso di indicare l’ordine dei loro libri secondo l’ordine delle lettere dell’alfabeto” (In Phys. 923, 3–4 Diels), ma quest’uso deve essere invalso in modo definitivo solo in età neoplatonica e bizantina (Primavesi 2007, 66 e n. 90). La tradizione manoscritta dei trattati di Aristotele evidentemente segue questo uso tardo antico e bizantino.

Aspasio per contro evita ogni indicazione di numero o di lettera e si limita a frasi come “di seguito” (26, 11; 89, 12), “all’inizio” (118, 19; 120, 25; 132, 2; 162, 2–3), “in precedenza” (136, 31; 140, 23) e se deve indicare un libro specifico si serve dell’indicazione del contenuto: “nei discorsi sulla giustizia (en tois logois peri dikaiosunēs)” (160, 11).

Al di là delle annotazioni particolari, l’impressione che si ha leggendo il commento è quella di ascoltare un bravo docente che illustri il testo di Aristotele, parafrasandolo a volte, facendo confronti con altri passi della stessa opera e con opere diverse dello stesso autore, illustrando la struttura del discorso e la logica degli argomenti e mostrando la differenza tra le posizioni di Aristotele e quelle di altre scuole.

L’Anonimo mostra di apprezzare Aristotele, ma non incondizionatamente: egli a volte osserva che un’affermazione, un esempio o una dimostrazione sono chiare e/o dette bene (122, 9; 128, 21; 130, 10), ma altre volte fa critiche al suo autore: sia per non rispettare l’uso attico di allos rispetto ad heteros (129, 29–30), sia per essersi espresso in modo poco chiaro (ainittetai, 131, 24), sia per aver innovato con termini inadatti (136, 11–15). A volte si oppone direttamente alle parole di Aristotele, ad esempio quando Aristotle sostiene che “Riguardo alle virtù il sapere conta poco o nulla” (1105b1–2), l’Anonimo osserva:

E tuttavia (ou mēn) non è del tutto indifferente la conoscenza di quelle [della causa e il possesso della dimostrazione], per coloro che hanno buoni costumi (kalōs eithismenois): è proprio di chi possiede la ragione (logikou) il conoscere le cause delle azioni compiute da lui stesso ed essere capace di renderne ragione (129, 24–26).

Aristotele non è quasi mai stato considerato dai suoi discepoli ‘divino’, come Platone,[12] e questo anticipa la posizione, espressa chiaramente dai commentatori neoplatonici, secondo i quali lo scopo di un buon commentatore è il realizzare un approccio obiettivo, che non tenti di dare ragione ad Aristotele sempre e in ogni occasione.[13] Questo differenzia la posizione dell’Anonimo da quella di Alessandro d’Afrodisia, il quale molto difficilmente avanza critiche al testo di Aristotele.

L’Anonimo tende tuttavia a sottolineare l’organicità e la coerenza del discorso del libro II. La presupposizione dell’organicità del testo non è tipica solo dell’esegesi greca di età imperiale, è piuttosto un’assunzione universale di tutti i commentatori, di tutte le culture e di tutte le epoche, sia in occidente sia in oriente, a parte qualche eccezione moderna.[14] In generale gli autori dei commenti mostrano un certo “horror of the possibility of randomness” e spesso compiono veri tours de force per trovare coerenza negli autori commentati. I commentatori tendono ad affermare che le contraddizioni del testo esaminato sono solo apparenti, in quanto l’esistenza di una contraddizione implica una limitazione nella fiducia sulla verità delle dottrine del maestro. Spesso la coerenza viene cercata sia a livello dei termini, interpretando un termine tecnico di un passo alla luce di altri testi, sia a livello delle sezioni del testo commentato, cercando di spiegare la loro successione all’interno del tutto (Henderson 1991, 106–7, 115, 146, 155). Tutte queste caratteristiche non mancano nel testo dell’Anonimo, sebbene siano affermate con minore forza che in altre tradizioni.

L’Anonimo cerca di mostrare al suo uditorio come si sviluppano le argomentazioni di Aristotele. Divide il libro in due parti, una prima dedicata alla messa in pratica delle virtù, ed una seconda dedicata alla theōria della virtù (125, 23–26). In questa seconda parte l’Anonimo nota che Aristotele dapprima pone (hupothemenos) la tesi che la virtù riguarda il giusto mezzo nelle azioni, poi dimostra che tali azioni riguardano le passioni dell’anima irrazionale e che anche nelle passioni si deve mirare al giusto mezzo (125, 30–34). Osserva anche che Aristotele, secondo buona norma, prima stabilisce il genere della virtù e poi la sua differenza specifica, cioè che per prima cosa Aristotele dà la definizione generale di virtù, e poi specifica la differenza della virtù umana (131, 8–10).

Più in particolare, a volte distingue l’inizio delle dimostrazioni (123, 7), ne mostra lo sviluppo (houtōs echei ta tēs epicheirēseōs 125, 11), e indica quale ne sia la conclusione (133, 23). Qualche volta rinvia a premesse stabilite in precedenza nello stesso libro (130, 22–23; 133, 25).

Mostra inoltre come si sviluppa il percorso argomentativo generale di Aristotele, distinguendo le varie argomentazioni (127, 17; 131, 2); a volte lo fa in base ai differenti punti di partenza:

Questa è una dimostrazione diversa rispetto a quella di prima, quella infatti argomenta a partire dal fatto che il piacere è stato allevato insieme a noi, che esso appartiene allo stato abituale (ethos) e per questo è difficile da estirpare; quest’altra invece lo fa a partire dal fatto che è difficile vincere il piacere a causa della sua forza (128, 28–31).

Avendo mostrato che le virtù sono delle medietà anche sulla base di quanto ha assunto in precedenza, ora vuole stabilire questa tesi anche sulla base di quanto dice ora (131, 13–14).

Più in particolare l’Anonimo mostra come Aristotele cominci con lo stabilire che le virtù non sono per natura, perché altrimenti sarebbero oggetto della fisica (123, 5–9). Non tiene conto in questo passo della discussione sulle passioni del De anima I 1, anche se più avanti cita, in modo impreciso, la definizione dell’ira come orexis antilupēseōs di De An. 403a30–31 (136, 25), infatti Aristotele applica tale definizione all’orgē, l’Anonimo la trasferisce al thumos.

L’Anonimo a volte rende più chiaro il fondamento logico della dimostrazione: ad esempio, relativamente all’argomento di 1106b8–16, secondo cui se ogni scienza ed ogni arte porta a compimento la sua opera guardando al giusto mezzo, tanto più lo farà la virtù, egli osserva che è un argomento che procede a partire dal topos del caso peggiore (132, 27), con un riferimento implicito a Top. I 10, in cui si discutono appunto i topoi ek tou mallon kai hētton:

se una caratteristica appartiene a ciò al quale è meno verosimile che appartenga, lo farà anche a ciò al quale è più verosimile (115a7–8).

Più avanti, con riferimento all’argomento di 1109b14–25, secondo cui non è facile stabilire il giusto mezzo, e non è da biasimare chi si allontana un poco dal massimo della virtù, e che quindi il giudizio di queste cose va rimesso al “senso morale” (per così dire, il testo dice: en tēi aisthēsei hē krisis 1109b23), l’Anonimo riporta questo argomento al Sorite:

Infatti come non è possibile stabilire precisamente con il ragionamento quale delle aggiunte faccia nascere il mucchio, allo stesso modo non è possibile nella prassi. Come nelle azioni colui che si allontana un poco [dal giusto mezzo] non è biasimato, ma lo è chi si allontana di più, così in quel caso l’aggiunta di una piccola quantità non crea un mucchio. Infatti il mucchio si crea ad un certo momento tramite l’aggiunta di molte cose, ma non è possibile stabilire con il ragionamento il quando [to pote, mss. to poteron] questo avvenga. Infatti il giudizio sulle cose sensibili non lo dà il ragionamento ma la sensazione (140, 7–12).

Andando più in profondità nell’ontologia delle virtù, l’Anonimo sembra applicare le distinzioni delle Categorie al testo di Aristotele. In particolare distingue l’ethos in quanto è un’attività dall’ēthos in quanto è una qualità (poiotēs) dell’anima passionale, che è il prodotto dall’attività, ne è il fine e la realizzazione (to telos kai to ergon) (122, 19–123, 1). Una distinzione similare, ma tra le categorie della quantità e della qualità, è tirata in ballo a proposito di un’aporia relativa al fatto che nella passione si dia un giusto mezzo pur non essendo una quantità:

Ma come è possibile, anche se quelle caratteristiche si trovano in tutto ciò che è divisibile e continuo, assumerle così immediatamente sia nella passione sia nell’azione, che sono ciò per cui si dà la virtù etica? Infatti né le azioni né le passioni sono quantità: le passioni sono qualità, e le azioni verranno a rientrare nella qualità (131, 25–28).

Torneremo a esaminare quest’aporia più avanti, per il momento anticipiamo che per la soluzione dell’aporia l’Anonimo fa riferimento a tesi derivanti dalla Metafisica, 996a7, per cui le azioni umane avvengono meta kinēseōs (132, 9) ed addirittura dall’Etica Eudemia, 1220b26, 1222b29, per cui le azioni sono dei tipi di movimento, kai hai praxeis kinēseis tines (132, 8), ed aggiunge anche la possibilità che siano dia kinēseōs. Il problema non è affatto banale, e rinasce anche nell’età moderna, con i commenti di Ramsauer (1878, 105) e Joachim (1955, 85), che propongono una soluzione non molto diversa da quella dell’Anonimo.

L’Anonimo tende a individuare se quanto viene detto in EN II è coerente con il resto del corpus delle opere di Aristotele. A proposito dello sdegno, egli discute a lungo se le tesi esposte nel libro II siano coerenti con la descrizione dell’ira nella Retorica (137, 29–138, 18).

Nei commenti ai libri successivi sono citati, come opera di Aristotele, i Magna Moralia, a proposito del commento a EN V 8/5,[15] sul contraccambio:

ora fa menzione del contraccambio e della definizione che i Pitagorici hanno dato del giusto, a proposito del quale ha detto qualcosa di più sicuro nel primo libro della Grande Etica: essi ritennero giusto che uno riceva quel che ha fatto (1194a30–31, cfr. 222, 18).

Particolare attenzione viene dedicata dall’Anonimo alla Politica, specie nel commento al libro V, come c’è da aspettarsi. Egli cita (194, 5) la definizione della schiavitù nella Politica (1254a15); poi, commentando EN V 5, in cui Aristotele osserva:

riguardo all’educazione individuale, quella secondo la quale un individuo è buono in assoluto, più avanti noi dovremo stabilire se essa è oggetto dell’arte politica o di un’altra arte, infatti forse non è la stessa cosa l’essere buono, in ogni singolo caso, per l’uomo in generale e per il cittadino (1130b27–29),

per questo egli rinvia al libro III, capitolo 4 della Politica: kai touto poiēsei en tois Politikois (215, 2). Più avanti, nel commento a un passo di EN V sul giusto relativo alla sfera familiare (1134b17, oikonomikon dikaion), rinvia di nuovo a Politica I: erei pleon touto en tois Politikois (232, 1–2). La Politica era un testo noto e letto abbastanza ampiamente in quei tempi, anche se mai fatto oggetto di un commento specifico. Esso viene considerato dall’Anonimo un testo che viene dopo l’EN nell’ordine sistematico dei trattati, e i rinvii ad essa sono al futuro.

L’Anonimo non sembra invece avere una conoscenza ampia e dettagliata delle opere fisiche, che cita in modo poco preciso. Ciò si può vedere da un passo del commento alle prime righe di EN II:

Si può chiamare ‘esperienza’ anche la conoscenza delle cose che avvengono per natura, per esempio il movimento degli astri e le trasformazioni che avvengono nei fenomeni meteorologici, dei quali si occupa la scienza fisica. Coloro che divengono esperti di queste cose si conformano ad esse e fanno anche ragionamenti appropriati su di esse, come Aristotele ha detto su Democrito da qualche parte [De generatione et corruptione I 2.316a6], che costui negli studi naturali è come a casa sua (124, 34–125, 2).

4 Le aporie

Le parti teoricamente più interessanti del commento sono quelle in cui l’Anonimo discute delle aporie, e quelle in cui si contrappone alle altre scuole. I due insiemi non si identificano totalmente, dato che vi sono (a) aporie che sembrano essere connesse con le polemiche tra scuole, e (b) altre che non lo sembrano, ed anche (c) polemiche con altre scuole che non sono legate alla discussione di aporie. Vediamo i vari casi l’uno dopo l’altro, cominciando con le aporie. Esse derivano dall’attività della scuola, dato che è improbabile che un pensatore dell’età imperiale abbia comunicato i suoi pensieri unicamente tramite la parola scritta, come osserva Sharples (1989, 84).

Nel commento ad EN II troviamo in tutto cinque o sei esami di varie aporie, tre legate alla definizione generale della virtù come giusto mezzo, due su virtù particolari come la sincerità e la quasi-virtù dello sdegno, una sulle passioni. In esse appaiono delle questioni non banali, e che sono vicine a problemi disputati anche dai critici odierni, come ho già detto. Vediamole in breve.

A 131, 25–132, 12 la questione nasce dall’applicazione della dottrina delle categorie alla definizione della virtù come mesotēs, come ho già detto prima. Infatti, dice l’Anonimo, come è possibile attribuire determinazioni tipiche della quantità, come più, meno e uguale (pleon, elatton, ison) a realtà che rientrano nella categoria della qualità, come le passioni e le azioni? Inoltre il piacere non è nel tempo ma è completo in ogni momento, aggiunge l’Anonimo, riferendosi evidentemente ad EN X 3/4.[16] La struttura della quaestio è molto simile ad alcune delle Questioni di etica di Alessandro e della sua scuola: all’esposizione del problema, di solito abbastanza breve, fa seguito la soluzione, introdotta da un “O piuttosto” (ē).[17] A volte al problema vengono offerte più soluzioni, ad esempio nell’aporia sulla sincerità, 137, 5–20, introdotte tutte da un “O piuttosto” (137, 5; 11; 15). Come si diceva prima, questo non necessariamente è il segno che sono state sommate spiegazioni provenienti da fonti differenti, piuttosto si tratta di diverse soluzioni proposte dallo stesso autore: nelle Questioni di etica di Alessandro d’Afrodisia troviamo lo stesso procedimento, ad esempio la Quaestio 5, sul piacere come genere, se sia bene, male o indifferente, ottiene varie risposte concorrenti, tre delle quali introdotte con un “O piuttosto” (124, 10; 31; 36).

Il problema discusso nel passo 131, 25–132, 12 riguarda in sostanza il rapporto tra la virtù, le passioni che sottostanno ad essa e le azioni ne derivano. È connesso anche al problema posto anni fa da Ackrill (1965) sul rapporto tra l’azione morale e il movimento fisico in cui essa si concretizza. Per risolvere il problema, come ho già detto, l’Anonimo fa riferimento al fatto che le azioni avvengono nel tempo e sono, o dei tipi di movimento (kinēseis tines),[18] o si accompagnano a movimento (meta kinēseōs, 132, 9),[19] o avvengono tramite il movimento (ē dia kinēseōs, 132, 8).[20] Se le azioni sono nel tempo e sono connesse al movimento o sono composte da movimenti, allora esse hanno un aspetto quantitativo, e quindi ad esse si possono applicare le distinzioni del più, del meno e dell’uguale.[21]

Ciò vale anche per le passioni, aggiunge l’Anonimo, infatti alle azioni e alle passioni si accompagna il movimento (132, 9–10), e sono nel tempo. Anche in Boeto di Sidone la passione è definita come “un movimento irrazionale dotato di una qualche estensione (tēs psuchēs kinēsin alogon echousan ti megethos)”.[22] L’espressione echousan ti megethos può essere interpretata sia come riferita al fatto che la passione ha una certa ampiezza, e così evidentemente l’interpreta Aspasio (Lefebvre 2020), sia nel senso che la passione possiede anche un qualche aspetto (ti) quantitativo, e quindi può ammettere le caratteristiche del più, del meno e del giusto mezzo. In ogni caso il problema, anche in questo frammento, è di capire come la passione possa essere sottoposta al criterio del giusto mezzo (Lefebvre 2020, 424). Da questo punto di vista l’Anonimo sviluppa una complessa argomentazione per stabilire come dolore e piacere sono connessi sia a passioni ed azioni, sia ai desideri:

Infatti anche poco prima aveva detto che i piaceri e i dolori fanno seguito sia alle passioni sia alle azioni; ma piacere e dolore fanno seguito anche ai desideri nella misura in cui i desideri sorgono in connessione con una passione, dato che le passioni sono principi delle azioni (130, 22–25).

L’idea dell’Anonimo pare essere che azioni e passioni, o hanno come sostrato dei movimenti (132, 4–5, tēn kinēsin tēn hup’autōn), o si compongono di movimenti, quindi possono essere e sentite e compiute in modo eccessivo o in modo moderato. La discussione di questo problema ha portato l’Anonimo ad affrontare in breve questioni di ontologia dell’azione e delle emozioni, e a dare ad esse una soluzione sulla base di nozioni riprese da opere diverse dall’EN stessa. La sua soluzione mi pare adeguata, e mi è capitato qualche anno fa di sostenere una tesi analoga (Natali 2004, cap. 6).

Il problema della coerenza di Aristotele si pone anche più avanti, per quanto riguarda lo sdegno, che è una passione e non una virtù, ma ha una sua medietà (1108a35–b1); l’Anonimo pone il problema di come accordare questa tesi con l’affermazione generale che le passioni non sono oggetto di lode (1105b31–32) e quindi presumibilmente non hanno medietà. La soluzione è dire che lo sdegno e il pudore sono passioni in un senso particolare del termine (137, 21–27). Si applica qui una delle tecniche di coerentizzazione dell’autore commentato, descritte da Henderson qui sopra (p. 8), e relativa all’uso dei termini.

Di nuovo relative alla medietà sono le aporie che seguono poco dopo, 133, 28–134, 21. Ricordata la definizione della virtù morale, l’Anonimo fa riferimento ad un’obiezione basata sul fatto che, essendo gli estremi indeterminati, non dovrebbe essere possibile, a partire da essi, lo stabilire in cosa consista il giusto mezzo, perché tra due estremi indefiniti non si può trovare il punto centrale. Essa viene risolta distinguendo il medio per noi dal medio per sé (133, 28–134, 10).

Una seconda obiezione, consecutiva alla prima, considera il giusto mezzo come mescolanza degli estremi. Ma il bene, si obietta, non può essere la mescolanza di due mali: è una obiezione che riappare varie volte nella storia del pensiero.[23] A questo l’Anonimo risponde che non è vero che la natura di tutti gli intermedi consiste nella mescolanza dei contrari, e fa vari esempi, di cui uno è diretto contro gli Stoici:

Inoltre l’intermedio tra i beni e i mali non deriva dalla mescolanza del bene e del male, come nemmeno chi è progredito (ho prokoptōn) deriva dalla mescolanza del saggio (spoudaios) e dello stolto (phaulos), essendo medio (meson) tra loro per la mescolanza di quelli (134, 14–17).

Questo riferimento può essere un indizio della provenienza di queste obiezioni. Infatti l’aporia di 133, 28–134, 21 viene introdotta in modo lievemente diverso dall’aporia precedente, 131, 25–132, 12: in quel caso il problema nasceva spontaneamente dal confronto con le Categorie, qui invece si fa riferimento all’obiezione di certi avversari: “Ma coloro che pongono problemi (aporuntas) […] non si oppongono in modo corretto (ouk eu antilegoien)” (133, 28 + 34–35). Ovviamente il riferimento qui può essere a un avversario fittizio, ma l’esempio polemico appena citato può far pensare che qui l’Anonimo reagisca ad una critica di origine stoica. Un’altra polemica antistoica segue poche righe dopo, la vedremo più avanti, per ora proseguiamo con le aporie.

Tra le virtù particolari ve ne sono alcune minori, come la sincerità, per le quali la teoria del giusto mezzo pare di difficile applicazione. Infatti la verità va detta sempre:

Infatti è chiaro che è da preferirsi l’essere sinceri sempre e in ogni caso, e non moderatamente (mesōs, 137, 6–7).

L’Anonimo qui pare in imbarazzo, e propone varie soluzioni al problema. Una è quella che ammette che non si deve dire sempre la verità, con un riferimento alla nobile menzogna della Repubblica di Platone (137, 8); un’altra consiste nel sostenere che si deve dire la verità, ma non sempre e non a tutti, come diceva Baltazar Gracián,[24] in modo da avere un atteggiamento moderato e accorto nel dire la verità (137, 14–15); ancora un’altra nel sostenere che l’atteggiamento moderato consiste nel dire sempre la verità, senza sminuire né esagerare (137, 15–19).

5 Le polemiche con le altre scuole

Abbiamo visto già a proposito delle aporie alcuni riferimenti polemici dell’Anonimo contro altre scuole filosofiche. Dato l’argomento del libro II, le polemiche dell’Anonimo vertono principalmente su tre punti, i beni, la questione del piacere e la questione delle passioni, e sono rivolte contro i Platonici e contro gli Stoici. Non è sicuro che un brano sul piacere come criterio di scelta si rivolga contro gli Epicurei:

La massa (hoi polloi) sceglie di regolare e valutare le azioni in relazione al piacere, infatti pone in tal modo il piacere come criterio delle azioni volontarie, compie le azioni piacevoli e rifugge da quelle dolorose (128, 14–16).

Il brano sembra piuttosto una citazione di 1095b16. Invece un riferimento agli Epicurei si trova due volte nel commento al libro III. Nella prima, la posizione di Epicuro viene paragonata a quella di Callicle nel Gorgia (153, 22–23); nella seconda la distinzione aristotelica dei desideri irrazionali in naturali e avventizi (tōn d’epithumiōn ai men koinai dokousin einai hai d’idioi kai epithetoi, 1118b8–9) viene confrontata con la tripartizione epicurea dei desideri in necessari, naturali e non necessari né naturali (171, 23–28, il brano è il fr. 456 Usener), e naturalmente l’Anonimo sostiene che la distinzione di Aristotele è precedente e migliore (171, 28–29).

Il commento testimonia una posizione polemica dell’Anonimo verso le altre tre scuole filosofiche principali, che ricorda un poco la posizione di Alessandro di Afrodisia. Una delle accuse classiche contro le scuole filosofiche ellenistiche era l’accusa di mancanza di originalità. L’abbiamo appena vista per gli Epicurei, la ritroviamo anche rivolta agli Stoici riguardo alla questione del piacere, quando l’Anonimo discute il brano in cui Aristotele distingue certi casi in cui i piaceri non devono essere perseguiti, e poi afferma che “le virtù sono definite anche come un certo tipo di impassibilità ed immobilità (apatheias tinas kai ēremias)” (1104b21–24) con un probabile riferimento critico a Speusippo. L’Anonimo commenta:

Si deve sapere che anche prima degli Stoici vi era quella dottrina, che faceva consistere le virtù nell’impassibilità (128, 5–6).

Gli Stoici paiono essere l’avversario principale dell’Anonimo. Riguardo ai beni esterni, l’Anonimo non si lascia scappare l’occasione di polemizzare con loro, anche commentando brani che non hanno a che fare direttamente con le loro dottrine. A proposito di EN II 7, in cui Aristotele applica la definizione generale della virtù alle virtù particolari, l’Anonimo commenta che nel campo della prassi la convinzione deriva dai casi particolari, e poi se la prende con gli Stoici:

Infatti a partire dal fatto che alcuni sono stati purificati dall’elleboro si arriva ad essere convinti che l’elleboro purifichi tutti.[25] Allo stesso modo anche nel campo della prassi e delle scelte quanto si afferma deve corrispondere alle scelte: se uno sostenesse che la salute è un indifferente ma non conservasse più l’atteggiamento indifferente (to adiaphoron phulattei) per quanto riguarda le sue scelte e gli sforzi relativi alla salute, il [suo] discorso universale risulterebbe vuoto (kenos). E chi dicesse che queste cose sono indifferenti sì, ma per il saggio (tōi sophōi), e concedesse (sunchōrōn) che nessuno è un saggio secondo il tipo di saggio che lui ammette, dovrebbe ammettere (homologei) che le cose che dice non sono capaci di concordare con le sue azioni e le sue scelte (135, 1–8).

La critica agli Stoici, qui non nominati, si basa sul principio di EN X 1.1172a34–b3, per cui la prassi deve essere coerente con le dottrine professate, e il caso dello Stoico malato che si accorge che la malattia è un male è frequente nelle polemiche tra scuole avversarie.[26] La risposta attribuita all’avversario, che gli indifferenti lo sono soltanto per i saggi, ma che il saggio è solo un modello teorico ideale, e che quindi gli indifferenti non sono tali per il normale filosofo stoico, riprende, con una certa esagerazione polemica, la tesi secondo cui finora il saggio non si è potuto trovare (cfr. Sext. Emp. Adv. math. VII 432–435), tesi che, secondo gli studi più recenti, gli Stoici stessi avrebbero sostenuto, ammettendo che nemmeno Zenone, Cleante o Crisippo siano stati veramente dei saggi (cfr. Plut. De stoic. rep. 1048E).[27] Il brano non è presente nelle raccolte dei frammenti degli Stoici.

Una polemica analoga, sempre relativamente ai beni, si trova nel commento al libro V, in cui l’Anonimo, relativamente a un brano in cui Aristotele parla dei beni in assoluto (tōn haplōs agathōn, 1137a26–27), commenta polemicamente:

L’essere avido (pleonektēs) non consiste nel procurare a se stessi una cosa qualunque, ma nel procurarsi un qualche bene. Per questa ragione coloro che dicono che queste cose sono indifferenti (adiaphora) per gli uomini e per di più non attribuiscono alcun valore (axian) ma li pongono sullo stesso piano (ep’isēs) dei contrari – tra cui il primo fu Aristonimo, ed ora (nun de) alcuni che pretendono di essere dei Platonici, tra cui pare essere anche Attico, hanno assunto questa opinione – questi[28] dichiarano del tutto inutile la giustizia, infatti la giustizia non distribuisce né corregge la distribuzione dei beni relativi alle virtù ed è inutile ricercare qualcuna delle cose come queste, che sono del tutto indifferenti (248, 22–29. Il brano è il fr. 43 des Places di Attico).[29]

Una polemica anti-stoica si trova, inaspettatamente, in un passo in cui l’Anonimo commenta il consiglio dato da Aristotele, di cercare di evitare al massimo l’estremo più lontano dal giusto mezzo, dato che il giusto mezzo spesso è più vicino ad un estremo che all’altro (1109a30). L’Anonimo aggiunge:

Si deve segnalare che qui sembra che uno dia abitudini a se stesso e a causa sua, infatti l’educazione dei fanciulli è cosa che avviene in altro, ma quando si è cresciuti è possibile anche dare abitudini a se stessi, avendo consapevolezza che, indipendentemente dalle abitudini corrispondenti, non è possibile che si generino in noi gli stati abituali (hexeis) propri delle virtù. Per conseguenza anche le abitudini risultano essere volontarie e dipendere da noi (hekousia kai eph’hēmin). E tale esercizio verrà ad essere un tipo di abitudine (ethos) autonomo e indipendente (autexousion), e si genererà da se stesso. Se le cose stanno così, non si può escludere che colui che è stato educato bene al libero arbitrio (tou autexousiōs) fin dalla fanciullezza possa assumere l’abito della virtù in modo volontario (kata to hekousion), e non per necessità (mē anankēi) (139, 13–19).[30]

La discussione è indirizzata contro coloro che ritengono che secondo Aristotele l’educazione ricevuta da piccoli determini assolutamente il carattere e le azioni che ne derivano, e quindi che solo da piccolo, paradossalmente, uno sarebbe libero di scegliere, mentre da grande le sue scelte sarebbero necessariamente determinate dal carattere stesso. L’Anonimo prende parte decisamente in favore della posizione contraria, e lo fa usando un vocabolario tipico del dibattito sul determinismo antico (hekousion, eph’hēmin, autexousion, mē anankē). La polemica pare rivolta contro gli Stoici, che non vengono espressamente nominati, come non lo sono nel De fato di Alessandro d’Afrodisia. L’opposizione al determinismo non pare essere stata tipica solo di Alessandro e della sua scuola, e pare una caratteristica stabile dell’aristotelismo del II–III secolo a.C. La tesi del determinismo del carattere qui criticata è stata riaffermata di nuovo nella critica recente (Furley, Donini, Bobzien e molti altri) ed oggi va per la maggore, mentre la tesi dell’Anonimo oggi viene condivisa da pochi studiosi, i quali hanno sostenuto che anche da adulto uno può modificare il proprio carattere, tra cui Destrée (2011); anche chi scrive condivide quest’altra impostazione.[31]

Per quanto riguarda i Platonici del suo tempo, l’Anonimo contrappone ad essi Platone, che nelle Leggi (653a–c) ha detto di abituare i giovani a provare piacere per ciò per cui si deve provarlo, ed è stato elogiato per questo da Aristotele (1104b12, cfr. 127, 5–9); i Platonici invece difendono la tesi che l’impassibilità (apatheia) sia la caratteristica tipica del saggio. L’accusa parrebbe cogliere il segno in alcuni casi, per esempio nel caso di Attico (Boys-Stones 2018, 483), ed alcuni hanno pensato che qui l’attacco sia direttamente rivolto contro di lui.[32] Più avanti, nel commento al libro V (248, 22–29) come abbiamo visto prima, l’Anonimo attribuisce ad Attico una tesi analoga e connessa a questa, cioè che i beni esterni sono indifferenti; questa posizione pare essere stata sostenuta anche da Alcinoo (Annas 2002). La critica ai Platonici è diretta in senso contrario rispetto ad una di quelle rivolte contro gli Stoici e gli Epicurei: se questi sono accusati di non innovare realmente, ma di ripetere tesi già dette da altri, al contrario i Platonici sono accusati di innovare e non seguire fedelmente il loro maestro.

6 Aspasio e l’Anonimo

Una maggiore conoscenza delle caratteristiche di questo commento potrebbe venire dal confronto con quello di Aspasio, almeno per le parti parallele in entrambi i commenti. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, e qui mi è possibile fare solo alcuni accenni. In generale comunque si può dire che questo commento è indipendente da quello di Aspasio.

Nonostante la dimensione quasi simile, il commento di Aspasio appare più dettagliato e continuo, anche se non è un commento completo, riga per riga, mentre l’Anonimo ha un andamento desultorio, fa lunghe note su certi punti, brevi note su altri e salta del tutto dei punti anche importanti, come ho già detto.

Aspasio sembra meno interessato dell’Anonimo a polemizzare con i suoi contemporanei, infatti, a parte la lunga discussione sul ruolo del piacere e del dolore nella virtù etica, in cui esamina criticamente la teoria stoica dell’emozione (44, 13 e 23; 45, 16) e la loro concezione della paura (45, 23), Aspasio non pare molto interessato a polemizzare con le altre scuole.[33] Egli non cita né gli Epicurei né i Platonici di età imperiale, e invece si interessa alla storia del Peripato, cosa che all’Anonimo interessa meno. Ad esempio in 139, 13–19, l’Anonimo prende spunto da un passo piuttosto anodino per criticare il determinismo del carattere, come abbiamo visto, mentre Aspasio non dice nulla nella stessa occasione. Allo stesso modo, in 133, 28–134, 22, l’Anonimo discute un’aporia avanzata da ‘alcuni’ rispetto a come la virtù può essere un giusto mezzo, e fa riferimento esplicito anche alle dottrine stoiche (vedi p. 14), mentre Aspasio propone, rispetto allo stesso passo (1107a6–8), solo un’aporia interna al pensiero di Aristotele e la risolve tramite una citazione degli Analitici posteriori, II 10 (48, 27–49, 1).

Molte volte l’Anonimo e Aspasio prendono posizioni simili (132, 30 = 47, 20; 134, 28–30 = 51, 18–23; 136, 33 = 53, 6). A volte pongono lo stesso problema, ma danno soluzioni alquanto diverse: rispetto al problema di come le passioni sono sottoposte alla virtù, abbiamo visto che l’Anonimo propone due soluzioni (alcune virtù hanno le emozioni come materia, altre in altro modo; oppure per tutte le virtù le emozioni sono materia), mentre Aspasio risolve la questione dicendo che tutte le virtù hanno le passioni come sostrato (hupokeimenon 42, 13–26).[34] A volte l’Anonimo non vede problemi dove Aspasio li vede, ad es. riguardo alla viltà (cfr. 135, 29 rispetto a 52, 17–19), oppure riguardo al vizio dell’ironia. Qui l’Anonimo non ha nulla da dire, mentre Aspasio ha una discussione abbastanza lunga sull’ironia socratica, che non può essere un vizio, e propone varie soluzioni: o Socrate è detto ironico solo dagli avversari, oppure la sua ironia non è un vizio, oppure vi sono vari significati del termine eirōneia (54, 18–28). A volte è il contrario, per esempio riguardo al fatto che la virtù della sincerità è un giusto mezzo l’Anonimo si pone vari problemi, come abbiamo visto (137, 5–20), mentre Aspasio non trova nulla da ridire (54, 5).

Sulla definizione della passione dell’anima vi è una certa vicinanza tra Aspasio e l’Anonimo. Aspasio definisce la passione dell’anima come “un movimento della parte irrazionale dell’anima (kinēsis tou alougou tēs psuchēs) sotto la spinta del piacevole o del doloroso” che avviene o insieme ad una rappresentazione o insieme ad una assunzione (meta phantasian [] meta hupolēpsin) (45, 13–15). L’Anonimo osserva che la passione si dà nell’anima “irrazionale ma capace di obbedire al ragionamento, proprio com’è l’anima desiderante (alogos epipeithēs de logōi, hopoia estin hē orektikē)” (130, 18) e che “è un movimento percettivo della capacità di desiderare (kinēsis tēs orektikēs dunameōs aisthētē), relativo alla rappresentazione di un bene o di un male (epi phantasiai agathou ē kakou)” (130, 19–20).

Il punto più interessante ci pare il confronto tra le virtù intellettuali e quelle morali. L’Anonimo ha chiaramente in mente la fisica come modello di virtù intellettuale, e caratterizza queste virtù come basate, oltre che sull’insegnamento, anche sull’esperienza (empeiria) e la sensazione (aisthēsis) dei fenomeni naturali (124, 24–125, 2). Invece Aspasio ha poca simpatia per l’esperienza e per l’aisthēsis e fa riferimento piuttosto alla filosofia prima (37, 16) ed alla sophia (37, 13–14) – descritta, in modo inaspettato, come dedita a indagare ta phusei sunestōta, i fenomeni naturali. La sophia in Aspasio viene identificata con l’epistēmē, quindi probabilmente Aspasio ha in mente la descrizione della sophia in EN VI, come somma di nous ed epistēmē.

Allo stesso modo, alla fine del commento ad EN II, l’Anonimo afferma, coerentemente con quanto dice Aristotele a 1109b23, che cogliere il giusto mezzo è compito dell’aisthēsis (140, 15) mentre Aspasio riserva questo compito alla phronēsis. La posizione di Aspasio è coerente con quanto Aristotele sostiene nel libro VI, rispetto all’orthos logos 1144b23–25, che è identificato con la phronesis; ma è meno coerente con quanto Aristotele dice nel libro II sulla facoltà capace di cogliere la medietà nelle passioni e nelle azioni, che ivi è identifcata con l’aisthēsis.

Quindi, rispetto ad Aspasio, l’Anonimo appare più interessato alla fisica che alla ‘filosofia prima’, espressione che non usa mai, e inoltre pare deciso a sottolineare il ruolo dell’esperienza e dell’aisthēsis, mentre Aspasio fa il contrario, come si vede bene nel suo commento al libro I dell’EN (cfr. Petrucci 2022). Alcuni hanno pensato che Aspasio non fosse un aristotelico, per queste sue caratteristiche, ma che fosse uno studioso senza una affiliazione a una scuola particolare o addirittura un platonico, ma la tesi mi pare eccessiva:[35] probabilmente è più corretto parlare, per questi due commentatori dell’etica di Aristotele, di due forme diverse di aristotelismo.

7 Note al libro II dell’Etica Nicomachea di Aristotele (Ed. Heylbut, CAG XX 122–140)

(122) (1103a15) “Per lo più la virtù intellettuale nasce e si sviluppa a partire dall’insegnamento”.

Dice così perché la virtù intellettuale ha bisogno anche della natura, oppure anche perché va insieme alla virtù secondo (5) la sapienza, che è virtù dell’intelletto teoretico, e a quella secondo la saggezza, che è virtù dell’intelletto pratico, le quali derivano anche da ricerche e scoperte ad esse appropriate.

(1103a16) “Ragione per cui ha bisogno di esperienza e di tempo”.

Nel senso di: ‘di molto tempo’. Questo è ben detto, infatti l’esperienza insegna (10) e anche la molta esperienza che si genera con il tempo, come dice anche Euripide “Ma l’esperienza ha qualcosa da dire di più saggio che la gioventù”,[36] e i geometri diventano più sapienti con il passare di molto tempo, mentre l’abitudine (ethos) ha una certa capacità di mutare (ha la capacità di sviluppare uno stato abituale a partire dalle attività proprie, ed attraverso quelle); da parte sua l’esperienza (empeiria) è l’osservazione delle attività altrui, e chi apprende giunge alle sue conclusioni (sullogizetai) assumendo le premesse (15) da quelle.

(1103a17) “Da cui ha tratto anche il nome”.

Dice che le virtù dell’anima irrazionale si sviluppano dall’abitudine (ethos), Aristotele ha posto come indizio il fatto che per questo motivo vengono anche chiamate etiche (ēthikas). Infatti il carattere (ēthos) ottiene il nome a partire dall’abitudine (ethos), e le virtù etiche (ēthikai) vengono chiamate ‘abituali’ (ethikai). E mentre l’abitudine (ethos) (20) è attività, il carattere (ēthos) è la qualità (123) che si genera per mezzo dell’attività che avviene nell’anima sede delle passioni (pathētikē), cioè è il fine e la realizzazione dell’abitudine. Ovviamente si sta parlando dell’anima che è insieme irrazionale e capace di obbedire al logos.

Avendo detto che le virtù etiche (ēthikas) derivano dall’abitudine (ethos), e avendo dato credibilità a questo servendosi anche del nome, Aristotele ha usato il fatto che esse derivino dall’abitudine (ethos) come una testimonianza (5) del fatto che esse non nascono per natura in coloro che le possiedono; ma se non lo fanno né le virtù etiche né le virtù dianoetiche (infatti è chiaro che ciò che deriva da insegnamento non è per natura), nessuna virtù potrà generarsi per natura. Accingendosi a fare un discorso delle virtù, correttamente per prima cosa dimostra che non sono per natura: se fossero per natura non spetterebbe più al filosofo morale di parlarne, ma al fisico, come vedremo anche riguardo al (10) come si generano [1103a17].

“Nessuna virtù morale nasce in noi per natura” [1103a19]. Qui con le parole ‘per natura’ intende ciò, il cui completamento si genera dalla natura, oppure ciò che è connaturato, ad esempio la pesantezza per la pietra, oppure ciò che sopravviene in un secondo momento, come la crescita dei denti o della barba, infatti mentre queste sono cose che sopravvengono in noi che siamo naturalmente adatti a riceverle, invece ora dice che non sono per natura le cose che necessitano di un qualcosa di esterno per il loro completamento. Infatti non le si può dire (15) per natura in senso proprio, anche talvolta ci serviamo del termine ‘per natura’ a proposito di esse: non abbiamo le arti per natura, anche se siamo per natura capaci di accoglierle. Rende evidente che ciò che deriva dall’abitudine non è per natura, per mezzo della tesi che nessuna cosa che sia per natura o possieda una natura ha la capacità di essere abituata a qualcosa di diverso.

(1103a23–24) “Quindi non si generano né per natura né contro natura”.

(20) Tramite ciò che ha esposto prima ha dimostrato entrambe le cose seguenti: che ciò che deriva dalle abitudini non è né per natura né contro natura. Infatti le cose che appartengono a qualcuno per natura non si abituano a essere diversamente, mentre i caratteri (ēthē) si trasformano, in momenti diversi, proprio a causa delle abitudini (ethē), di conseguenza i caratteri, che non sono né per natura né contro natura, possono generarsi per abitudine (ethos) in certe persone. Infatti non si può abituare la pietra a spostarsi in alto (questo è per lei contro natura), mentre le virtù etiche (25) si generano per abitudine, e quindi non sono in noi contro natura. Si deve sapere che le capacità (dunameis) e le abitudini (hexeis) di tutte le cose naturali precedono le attività, mentre, per le cose che non stanno in quel modo, è dalle attività che derivano le abitudini.

(1103a26) “Inoltre, nel caso di ciò che si genera in noi per natura”.

Dimostra che le virtù non sono per natura anche nel modo seguente: delle cose che ci appartengono per natura (30) acquistiamo le capacità prima di compiere le attività (infatti ora ha detto ‘acquistiamo’ [komizometha] [1103b27] (124) invece di ‘assumere ed avere’ [lambanein kai echein]), e successivamente forniamo le attività che derivano da quelle capacità. Ora chiama ‘potenze’ [1103b26] le abitudini (hexeis) e non le attitudini (epitēdeiotētes), infatti le attitudini si danno per prime, in tutto ciò che si genera in noi per natura. Non ci procuriamo (5) la capacità di vedere a partire dal fatto di vedere spesso, ma, a partire dal fatto di possedere la capacità di vedere in primis, ci serviamo delle attività che ne derivano. Nessuno mai ha veduto prima di possedere la potenza e lo stato abituale (hexis) del vedere, né lo ha fatto per qualsiasi altra sensazione, senza prima averne la potenza. Invece gli stati abituali secondo le virtù[37] sono successivi e li acquistiamo per mezzo delle attività secondo le virtù stesse, come avviene anche nel caso delle tecniche. Di conseguenza le virtù non sono per natura. In generale (10) quelle cose che non facciamo per natura, ma a partire da qualche conoscenza ed insegnamento, le impariamo facendole. Venendo abituati da altri noi acquistiamo lo stato abituale (hexin), come ad es. dal costruire acquistiamo l’architettura, dal compiere azioni giuste la giustizia e ugualmente le altre virtù, di modo che le virtù non sono per natura.

Alla fine del primo libro ha mostrato che le virtù intellettuali, tra cui la sapienza è propria della parte teoretica, (15) e quelle pratiche, tra cui è la temperanza, sono delle virtù per il fatto di essere lodate, infatti ogni stato abituale oggetto di lode è una virtù. E [ora] dice che “per lo più a partire dall’insegnamento” [1103a15] nascono e si sviluppano le virtù razionali, contrapponendo l’insegnamento all’abitudine (ethos), che è ciò per mezzo del quale, egli dice, nascono le virtù etiche, infatti quelle nascono solo attraverso l’abitudine.

Ha detto che “per lo più” (to pleiston)[38] le virtù dianoetiche nascono “a partire dall’insegnamento” [1103a15] (20), o perché c’è bisogno anche della natura per colui che diventerà sapiente e saggio (sophos kai phronimos) (nel senso che è inutile l’insegnamento per coloro che non hanno una natura adatta fin dalla nascita), oppure perché ciò che fa parte delle virtù dianoetiche non si sviluppa solo tramite l’insegnamento ma anche tramite la ricerca e la scoperta individuali.

Ha detto “hanno bisogno di esperienza e di tempo” [1103a16–17], infatti non è possibile in poco tempo diventare esperto di molte cose: (25) le virtù dianoetiche hanno bisogno di tempo ed esperienza, e la saggezza pratica ne ha bisogno in modo particolare, infatti la familiarità con una persona non nasce tramite un solo incontro.[39] Di modo che dopo l’esperienza ha aggiunto le parole “di tempo” [1103a17]. Le virtù dianoetiche non si differenziano dalle virtù etiche da questo punto di vista, ma per l’aspetto citato prima, cioè per il fatto che le dianoetiche “si generano e si incrementano” [1103a16] in massima parte tramite l’insegnamento, dato che anche le virtù etiche hanno bisogno di tempo, anche se non (30) nella misura di quelle che si acquistano tramite l’insegnamento e l’esperienza. Non ha detto ciò per la ragione che l’esperienza è di per sé sufficiente per la scienza, ma per la ragione che per le virtù che derivano dall’insegnamento è necessaria l’esperienza, dato che il punto di partenza della conoscenza deriva dall’esperienza, e per questo ha premesso le parole “in massima parte” alle parole “dall’insegnamento” [1103a15–16], da cui essa si può generare. Si può chiamare ‘esperienza’ anche la conoscenza delle cose che avvengono per natura, per esempio (35) il movimento degli astri e le trasformazioni che avvengono nei fenomeni meteorologici, dei quali si occupa la scienza fisica. Coloro che divengono esperti di queste cose si conformano (125) ad esse e fanno anche ragionamenti appropriati su di esse, come Aristotele ha detto su Democrito da qualche parte,[40] che costui negli studi naturali è come a casa sua (enoikēsas); ma non come fanno i Pitagorici, a causa del loro concentrarsi sulla matematica:[41] trovandosi in stato di povertà riguardo alle sostanze naturali, quelli tra loro che discutevano su di esse non adattavano i loro ragionamenti ad esse (5) ma le conformavano alle loro proprie ipotesi.

“E l’intenzione” [1103b4] chiaramente di abituare a cose tramite le quali i cittadini arrivino nel tempo a possedere le virtù, se è vero che le abitudini (ethē) sono capaci di produrre tali stati abituali (hexeōn).

(1103b5) “Quei [legislatori] che non fanno bene ciò”.[42]

Cioè i legislatori che non guidano i concittadini tramite azioni lodevoli (10) non valutano bene la situazione.

“Inoltre a partire dalle stesse cose” [1103b6–7]. I momenti dell’argomentazione sono questi: ciò che in qualche modo si genera e si corrompe per opera delle stesse cose non è per natura, e le virtù non lo sono, infatti in un certo modo si generano e si corrompono per opera delle stesse cose, cioè non si generano né si costituiscono affatto. Usa in questo passo il termine ‘corrompersi’ (phtheiresthai) riguardo a virtù che già ci sono.

(15) “E per mezzo delle stesse cose” [1103b7], cioè per mezzo di quelle tali attività che derivano dagli stati abituali il loro essere buone o cattive.

“Se non fosse così” [1103b12], è detto bene: se la differenza di carattere non li rendesse tali o tali.

“Così avviene anche nel caso delle virtù” [1103b13–14]. Riassumendo il tutto, l’argomentazione si viene così a sviluppare: se le virtù si generano e si corrompono come le arti, a partire dalle stesse cose e per mezzo delle stesse cose, (20) e le arti si generano a partire dalle attività e non per natura, neanche le virtù, che si generano a partire dalle attività, saranno per natura. Se quindi non si generano per natura, ma a partire dalle abitudini (ethous), bisogna chiaramente stabilire da quali attività, […][43] ed è chiaro che diventano miti abituandosi, cioè compiendo le azioni per opera delle quali diventano tali, come mostra per via di induzione.

“Siccome la presente trattazione” [1103b26] dato che la presente trattazione è prevalentemente indirizzata all’attuazione pratica delle virtù, nella seconda parte si occupa anche della teoria di quelle stesse virtù.

(1103b31) “Ora, l’agire in conformità alla retta ragione è comune”.

Dice quindi che appartiene ‘in comune’ la qualità di essere messe in pratica “secondo la retta ragione” [1103b32],[44] sia alle azioni sia alle attività tramite le quali si devono assumere le abitudini.

“Se ne parlerà (30) più avanti” [1103b32–33]: nel libro sesto, nel quale parla della saggezza (phronēsis). Infatti la retta ragione, che deriva dalla saggezza, determina le azioni secondo le virtù etiche ed impone ad esse la giusta misura [metron].[45]

Stabilito ciò come ipotesi, di seguito mostrerà che le azioni attraverso le quali ci si deve abituare riguardano le passioni (infatti le virtù riguardano queste cose), e che in esse si deve mirare al giusto mezzo (meson) (126). Ci ricorda di aver detto frequentemente, nel libro primo, che si deve adattare la precisione del discorso alle materie trattate.[46] Quindi, siccome le azioni fatte secondo le virtù e i caratteri da cui derivano le attività non hanno niente di precisamente determinato – infatti mutano in relazione ai tempi, (5) alle circostanze, ai casi, alle persone, alle scelte, ai luoghi, alle età, e diventano diverse in diversi casi, proprio come le cose salutari: infatti neanche riguardo a ciò che è salutare è possibile dire con esattezza quanto passeggiare e quanti cibi lo sono – anche il discorso su tali cose viene fatto in abbozzo e a grandi linee, dato che non ha esattezza. (10) Infatti né le cose utili – sulle quali vertono le azioni della vita e per mezzo delle quali assumiamo abitudini – né in generale gli oggetti di scelta hanno niente di saldo e fisso. Infatti non sembra che le stesse cose siano utili a tutti, né che alla stessa persona siano utili sempre le stesse cose, né che le stesse cose siano oggetto di scelta corretta per tutti.

“Le cose stanno così anche per le altre virtù” [1104a19], cioè quelle etiche (ēthikōn). Di queste egli sta parlando adesso, infatti sono queste (15) che derivano dai caratteri (ēthōn).

(1104a24) “Chi invece li sfugge tutti”.

Cioè i piaceri che riguardano il tatto, dato che non sfugge anche quelli dei temperanti, come si dimostrerà tra poco.

“Dall’assumere molto cibo” [1104a31], ma non eccessivo: si serve di queste parole per distinguere il cibo dalla salute.

“Siamo capaci al massimo” [1104a35] (20) infatti quando abbiamo assunto gli stati abituali compiamo molto facilmente le azioni, oppure: così abbiamo sfruttato meglio le attività.

“O almeno non ne soffre” [1104b7–8] molto umanamente ha aggiunto le parole ‘o almeno non ne soffre’: probabilmente è sufficiente per il coraggioso non addolorarsi per alcune attività, per esempio il venire ferito mentre combatte e agisce in modo coraggioso.

“La virtù morale (25) riguarda i piaceri e i dolori” [1104b8–9]. Perché ha mostrato che le virtù riguardano i piaceri e i dolori? Per il fatto che noi compiamo atti ignobili a causa del piacere e ci asteniamo dalle azioni belle a causa del dolore, la virtù verrà a riguardare quelle cose. Infatti la virtù raddrizza gli errori, e proprio in ciò in cui si dà errore, si danno anche cura e guarigione.

Avendo assunto che le virtù etiche riguardano le passioni, ora Aristotele dimostra (30) che le cose stanno proprio così. Così come la temperanza, anche le altre virtù riguardano piaceri e dolori. Queste due passioni sono sottoposte alla temperanza e lo sono come materia, e le azioni di quella virtù riguardano l’ambito di tali passioni; riguardo alle altre virtù, i sostrati sui quali vertono le attività di quelle sono altri, ma per il fatto che alle azioni compiute secondo quelle altre virtù conseguono quelle due passioni (35), per questa ragione anch’esse riguardano piaceri e dolori.

(127) (1104b11) “Per questo si deve essere abituati in un certo modo”.

Infatti coloro che sono abituati a godere e addolorarsi per le cose per cui si deve non compieranno più delle azioni ignobili a causa del piacere, né si terranno lontani dalle azioni belle a causa del dolore. La virtù etica verrà ad essere relativa ai piaceri e ai dolori come materia sottostante, (5) infatti la retta ragione dà loro confini. E Aristotele loda anche Platone, perché ha correttamente richiesto di abituare fin da subito i giovani, in modo che si rallegrino per le cose per cui devono e si addolorino per le cose per cui lo devono.[47] Per questa ragione uno si potrebbe meravigliare di coloro, tra i Platonici, che introducono l’impassibilità (apatheia)[48] come un insegnamento di Platone e biasimano il piacere.[49]

“Inoltre se le virtù riguardano le azioni e le passioni” [1104b13–14]. Che le virtù riguardino (10) piaceri e dolori e che bisogna abituare fin dall’inizio i giovani ben educati in modo che si rallegrino e si addolorino per le cose per le quali è opportuno, lo dimostra anche tramite l’accordo sulla tesi che le virtù etiche riguardano le azioni e le passioni, “e ad ogni azione e passione conseguono piacere e dolore” [1104b14–15], dunque è chiaro che la virtù etica riguarda passioni e azioni, infatti (15) le virtù etiche sono pratiche, e le loro attività (energeiai) consistono nelle azioni: in questo differiscono da quelle teoretiche.

Aristotele dimostra che le virtù riguardano il provare piacere e dolore anche nel modo seguente: le punizioni sono modi di cura degli errori, si infliggono tramite i contrari a coloro che sbagliano, e coloro che sbagliano vengono puniti per mezzo del dolore e della privazione dei piaceri. Infatti (20) gli errori riguardano dolori e piaceri, ma ciò in cui si danno gli errori, si danno anche le virtù. Le cure costituite dai contrari sono dei modi di condurre al giusto mezzo (meson), sia a quello dei contrari in base ai quali quelli sono malati, sia a quello dei contrari proposti allo scopo di medicare e curare. Questo è chiaro anche a partire dai rimedi della medicina: essa infatti vuota chi è pieno e riempie chi è vuoto, e (25) addensa chi è assottigliato e al contrario assottiglia chi è addensato, volendo riportare il loro stato abituale (hexis) alla situazione intermedia. Allo stesso modo quindi anche le punizioni di coloro che sbagliano sono tali da spingere da un contrario all’altro coloro che sono tratti in errore riguardo ai piaceri, ed indicano la capacità trasformativa delle virtù riguardo ai piaceri e ai dolori.

“O i piaceri che non si deve” [1104b22] alcuni, lui dice, seguono i piaceri come non si deve e quando non si deve e quelli che non si deve e (30) riguardo a chi non si deve e nei luoghi in cui non si deve e non come si deve. ‘Come non si deve’: infatti il filosofo o quello semplicemente ben educato non deve vivere voluttuosamente; ‘quando non si deve’: per esempio sposarsi da vecchio cadente; ‘quelli che non si deve’: per esempio servirsi di cibo proibito, come quello ricevuto dai nemici; ‘per chi non si deve’: per esempio per un re trasgredire le leggi, infatti gli stessi comportamenti non si adattano a un re e ad un privato, dato che il secondo agisce in modo (35) nascosto e non fa da cattivo esempio agli altri, l’altro, per il fatto di essere alla sommità offre un cattivo esempio ai suoi sudditi; <‘e nel luogo in cui non si deve’>:[50] per esempio (128) fare sesso in un tempio, sia pure con la moglie legittima;[51] e ‘come non si deve’ per esempio se uno costringesse la coniuge a un connubio abnorme e contro natura.

“Ma tale definizione non è stata data bene, perché la stabiliscono in assoluto” [1104b25] cioè senza l’aggiunta del ‘non come si deve’ e ‘come non si deve’ e senza le precisazioni che lo stesso Aristotele aggiunge: una certa impassibilità (apatheia) riguardo alle passioni errate è una virtù, ma non lo è l’impassibilità (5) in assoluto. Si deve sapere che anche prima degli Stoici vi era quella dottrina, che faceva consistere le virtù nell’impassibilità.[52] E ha reso chiaro ciò, mostrando che il vizio consiste nella smisuratezza di piaceri e dolori, e che la virtù consiste nella moderazione e delimitazione, inferendo questo e dicendo:

(1104b27) “Si ponga quindi che la virtù di questo tipo è quella che è capace di produrre le azioni migliori in relazione ai piaceri (10) e ai dolori, e che il vizio è il contrario”.

Aggiungendo al termine ‘virtù’ l’espressione ‘di questo tipo’, rende chiaro che è quella etica. Infatti la virtù dianoetica non indaga su queste cose.

“Essendo tre le cose […] che portano a rifiutare” [1104b30–31], cioè le peggiori, infatti contrappone a queste le migliori.

“E giudichiamo anche le azioni” [1105a3–4], infatti la massa sceglie di regolare (15) e valutare le azioni in relazione al piacere, infatti pone in tal modo il piacere come criterio delle azioni volontarie, compie le azioni piacevoli e rifugge da quelle dolorose. “Meno” [1105a4] di questi lo fanno le persone per bene (hoi agathoi), essi compiono le loro azioni obbedendo a una ragione che produce scelte, e agiscono in modo maggiormente pronto, e con maggiore buona volontà, anche se risultano sgradevoli le cose che è opportuno compiere.

(20) (1105a7). “Inoltre è più difficile combattere con il piacere”.

La dimostrazione è chiara: come le arti indagano principalmente sulle cose più difficili del loro ambito (infatti l’arte del falegname giudica in modo più attento nel caso dei legni particolarmente difficili da unire, dato che il successo in questo caso è più bello e più degno dell’arte, e la medicina indaga le malattie (pathē) più difficili da guarire),[53] (25) allo stesso modo anche le virtù riguarderanno le cose più difficili, e la passione più difficile e più dura da vincere è il piacere. Per questo motivo sarà ragionevole stabilire che la virtù riguarda il piacere. Riguardo a ciò che è più difficile dominare è maggiormente utile la virtù, e il piacere è la cosa più difficile da dominare.

Questa è una dimostrazione diversa rispetto a quella di prima, quella infatti argomenta, a partire dal fatto che il piacere è stato allevato insieme a noi (30), che esso appartiene allo stato abituale, e per questo è difficile da estirpare; quest’altra invece lo fa a partire dal fatto che è difficile vincere il piacere a causa della sua forza. Per dimostrare che il piacere è duro e difficile da vincere si serve di quanto ha detto Eraclito, il quale afferma che è più difficile combattere con il piacere che con l’impulsività (thumōi),[54] dato che anche questa è difficile da vincere (129) proprio quando si dà insieme al piacere. Come dice dell’impulsività lo stesso Eraclito: “e molto più dolce del miele stillante/cresce nel petto dell’uomo come fumo”.[55]

“Ed il bene è migliore in questo” [1105a10], cioè nel generarsi nella virtù e nell’arte, piuttosto che in modo non tecnico e senza virtù: infatti l’aretē è completezza delle opere (ergōn) ed è per essenza il (5) culmine di tutto ciò di cui è aretē.

(1105a23). “Cioè, sulla base dell’arte grammatica che porta in sé”. Vuol dire, a partire dallo stato abituale a lui proprio e che è interno a lui.

“Quello che si genera sulla base delle virtù” [1105a28–29]. Dice che le cose che dipendono dalla tecnica non si trovano ad essere nello stesso modo di quelle che dipendono dalle virtù. Infatti nelle cose che si generano secondo tecnica le realizzazioni (erga) hanno in sé il generarsi bene tecnicamente, e il giudizio se sono generate (10) o no secondo tecnica dipende da esse. <Per questa ragione è sufficiente il loro essere di una certa qualità. Per le cose generate secondo virtù il giudizio non[56] deriva dalle opere (apo tōn ergōn)>, infatti, anche se ciò che si verifica è giusto, non è direttamente necessario che sia avvenuto secondo giustizia, ma, perché le opere risultino giuste, si richiede anche che l’agente, in primo luogo compia l’azione (15) consapevolmente e non per caso, in secondo luogo sia in una certa disposizione riguardo ad esse: cioè che le faccia per scelta e non scegliedole in vista di qualcosa di esterno, ma per esse stesse; inoltre che le scelga “in modo saldo ed immutabile” [1105a33], cioè senza pentimenti. Di queste cose, né la scelta, né l’essere saldo e immutabile aggiungono nulla rispetto all’avvenire tecnicamente, e non dipende da essi il giudizio del generarsi (20) tecnicamente, basta il sapere che non si fanno per caso o per un qualche altro presupposto.

“Poco” dice “o nulla” [1105b1–2] il sapere conta per le virtù, per la ragione che sono i costumi (ēthē) ad avere la massima forza riguardo al possesso degli stati abituali (hexis) secondo le virtù; riguardo al compiere le azioni secondo virtù non aggiunge nulla il conoscerne la causa e possederne la dimostrazione. E tuttavia non è del tutto (25) indifferente la conoscenza di quelle, per coloro che hanno buoni costumi (kalōs eithismenois): è proprio di chi possiede la ragione (logikou) il conoscere le cause delle azioni compiute da lui stesso ed essere capace di renderne ragione.[57]

In modo piuttosto generale ha chiamato ‘arti’ gli stati abituali, dicendo “non vengono aggiunte nel caso del possesso delle altre arti” [1105a34–b1]. Infatti non lo fa davvero perché ritiene che anche le virtù siano arti, come fa pensare l’espressione ‘altre’. Infatti si dice ‘altro’ (allos) (30) delle cose omogenee.

“Ma colui che agisce anche in questo modo” [1105b8]. Il fatto di conoscere, per coloro che non hanno buone abitudini né compiono le attività secondo virtù, non li avvicina affatto a ciò in cui consiste il diventare buoni. Dice questo in modo fortemente esortativo (sphodra protreptikōs), poco più avanti [1105b12] si rivolge contro coloro che si esercitano nei discorsi su queste cose e trascurano le opere, pensando che il filosofare consista in questo, cioè nel (130) sapere quali cose sono belle e quali turpi, quali da scegliere e quali da sfuggire, in cosa consiste l’essenza della giustizia e in cosa consiste quella ciascuna delle altre virtù. Infatti anche se è proprio dello stato abituale scientifico il non essere mutabile ad opera del ragionamento, e questa caratteristica è propria anche delle virtù, non per questo (5) le virtù sono immediatamente delle scienze, dato che non è loro propria la definizione della scienza. Infatti anche <i> vizi hanno quella caratteristica, e l’hanno pure le passioni dell’anima difficili da rimuovere, quali le forme di pazzia e simili, ed anche quelle del corpo, come la tisi: questi sono stati abituali non modificabili ad opera del discorso, ma non per questo sono scienze. Infatti la caratteristica propria della scienza è l’essere uno stato abituale cognitivo a partire da dimostrazioni. Essendo tale è anche salda, ma non per questo la conoscenza che deriva dalla dimostrazione è (10) causa delle virtù. Si è servito dei malati come di un esempio chiarissimo per l’argomento presente.

(1105b19) “Di seguito, bisogna indagare cosa sia la virtù”.

Siccome chi definisce assume come prima cosa il genere di ciò che è definito, qui indaga quale genere si debba stabilire per le virtù. E siccome le virtù dell’anima sono interne (15) all’anima, assume quali siano le cose che si generano nell’anima, dato che le virtù consisteranno in qualcuna di quelle. <Dice che le cose che si generano nell’anima sono tre, passioni, capacità, stati abituali; dice che è questo il tipo di anima in cui si daranno le virtù etiche>, infatti essa è irrazionale ma capace di obbedire al ragionamento, proprio com’è l’anima desiderante, e in essa si danno le cose di cui Aristotele fa qui menzione. Ora, la passione è un movimento sensibile (kinēsis aisthētē) della (20) capacità di desiderare, relativo alla rappresentazione (epi phantasiâi) di un bene o di un male. Aristotele stesso ha mostrato chiaramente quando si dà la passione, presentando come esempio alcune passioni, e anche per mezzo dell’aggiunta della frase: “in generale tutto ciò, cui fanno seguito piacere e dolore” [1105b23]. Infatti anche poco prima [1104b14–15] aveva detto che i piaceri e i dolori fanno seguito sia alle passioni sia alle azioni; ma piacere e dolore fanno seguito anche ai desideri nella misura in cui i desideri sorgono in connessione con una passione, (25) dato che le passioni sono principi delle azioni.

Aristotele poi chiama ‘capacità’ (dunameis) ciò in base a cui siamo detti essere capaci di provare quelle passioni, cioè ciò in base a cui siamo capaci di accogliere le passioni (infatti se non avessimo la capacità di accogliere le passioni saremmo impassibili); e ‘stati abituali’ (hexeis) quelli in base ai quali ci atteggiamo bene o male riguardo alle passioni: ‘bene’, se ci poniamo in modo moderato (mesōs) riguardo ad esse, il che è proprio della virtù, ‘male’, invece, se riguardo ad esse eccediamo o (30) siamo in difetto, il che è proprio del vizio. In conclusione, le cose che si generano nell’anima sono riducibili alle tre dette prima.

Avendo esposto i concetti universali e comuni, e procedendo a partire da quelli Aristotele ha poi assunto ciò che è utile per i suoi scopi, introducendo distinzioni tra loro.

Posto che queste sono le cose che avvengono nell’anima, cerca in quale di esse devono essere poste le virtù; avendo dimostrato in molti modi (131) che non rientrano in nessuna delle altre due, ma che rientrano negli stati abituali, annuncia <che le virtù sono stati abituali> per genere; dimostra poi, tramite ciò che segue, che si tratta degli stati abituali migliori.

(1106a5) “Ma trovarsi in una certa disposizione”.

Secondo alcuni <le> virtù sono dei tipi di impassibilità (apatheia) e di quiete.[58]

Noi (5) non diventiamo buoni o cattivi per natura, ma per scelta, infatti nessuna cosa <di quelle> per natura si abitua diversamente. Per questo le virtù non nascono né per natura né contro natura, ma derivano a noi dall’abitudine.

“Ma non bisogna dire in questo modo soltanto, che sono stato abituale” [1106a13–14]. Avendo definito che il genere della virtù è lo stato abituale, aggiunge anche le differenze specifiche (eidopoious), ma incomincia con lo stabilire una definizione piuttosto generale di virtù, cioè che “ogni virtù, per ciò di cui è virtù” [1106a15] (10) ha l’effetto di portare alla buona realizzazione della propria funzione; successivamente, in base a questa definizione, stabilisce anche quale sia la differenza che identifica la virtù specifica dell’uomo, quella che corrisponde al suo scopo primario.

(1106a26) “In tutto ciò che è continuo e divisibile”.

Avendo mostrato che le virtù sono delle medietà anche sulla base di quanto ha assunto in precedenza, ora vuole stabilire questa tesi anche sulla base di quanto dice ora. Infatti dice che ciò che è divisibile è (15) duplice, o continuo o discreto. In tutti questi, invero, vi è il troppo e il poco, ma anche, se si danno quelli, l’uguale. E questo è evidente. Assumendo queste distinzioni le adatta al tema, facendo dell’uguale il giusto mezzo, del più e meno l’eccesso e il difetto, e prepara tramite la scelta dei nomi ciò che vuole dimostrare.

Il punto principale di quanto viene detto è che in ogni cosa divisibile è possibile individuare (20) un più, un meno e un uguale. Ma anche le passioni e le azioni sono divisibili, e di conseguenza assume che anche in esse vi è ciò per il quale spetta alle scienze cogliere il medio (meson) per sé[59] [1106b8] e fuggire gli eccessi e i difetti. Avendo anche assunto che la virtù è la più esatta di ogni scienza,[60] in base a queste assunzioni accenna oscuramente (ainittetai) alla tesi che anche la virtù (25) mira al giusto mezzo (meson), a quello nelle azioni e a quello nelle passioni, e che per questa ragione è anche una medietà.

Ma come è possibile, anche se quelle caratteristiche si trovano in tutto ciò che è divisibile e continuo, assumerle così immediatamente sia nella passione sia nell’azione, che sono ciò per cui si dà la virtù etica?[61] Infatti né le azioni né le passioni sono quantità: le passioni sono qualità, e le azioni verranno a rientrare nella qualità. Inoltre il piacere che deriva da esse, oltre a non essere una quantità, si genera anche istantaneamente nel loro caso, (30) allo stesso modo dell’attività di vedere.[62]

O piuttosto, mentre il piacere non è nel tempo in quanto il suo essere non si compie nel tempo, ma è intero e completo in qualunque porzione si prenda del (132) tempo, tuttavia, essendo il piacere un completamento e un punto di arrivo (telos) dell’attività che secondo natura l’accompagna, per questo anch’esso non verrà ad essere senza tempo. Inoltre è chiarissimo che ad ogni azione si accompagna del tempo, e la virtù è connessa alle azioni non meno che alle passioni, quindi, in quanto le azioni sono nel tempo, e il tempo rientra in ciò che è continuo e divisibile, (5) da questo punto di vista anche la virtù accoglie la distinzione del più e del meno. Inoltre, se Aristotele dice che ci muoviamo secondo le passioni, e il movimento è divisibile (infatti è nel tempo), anch’esse verranno ad essere divisibili secondo il movimento che sottostà a loro, infatti noi ci muoviamo secondo le passioni o in modo veemente o in modo tranquillo. D’altra parte anche le azioni o sono dei tipi di movimento[63] o avvengono per mezzo del movimento.[64] Quindi, siccome le virtù etiche riguardano[65] azioni e passioni, e queste avvengono insieme al movimento[66] (10) e nel tempo, e il tempo rientra nelle quantità e nel divisibile, allo stesso modo del movimento che è in lui, è possibile distinguere in esso il più, il meno e l’uguale. Quindi la distinzione sopraddetta si darà anche nelle passioni e nelle azioni.

(1106b3) “Per un Milone è poco”.

Dicono[67] che questo Milone è l’atleta di Crotone che superò talmente gli altri per la forza, da sollevare un toro sulle spalle e percorrere un intero stadio; e quando la casa, nella quale si riuniva e discuteva con i compagni essendo lui un Pitagorico, poiché era in parte fatiscente per poco non si abbattè su quelli che erano dentro, egli si mise sotto la parte rovinata e sollevandola salvò tutti facendoli evacuare. Alcuni dicono anche che, camminando in una foresta e (20) avendo fatto una piccola deviazione dal suo cammino, si imbatté in un grande tronco che alcuni avevano cercato di spaccare con dei cunei, e che era rinserrato saldamente. Allora dicono che questo Milone, entrato nella spaccatura, facesse forza con le mani e con i piedi per allargarla senza riuscire, ma al contrario, caduti fuori i cunei e ritornando ad avvicinarsi tra loro le due parti dell’albero l’una sull’altra, Milone, già spossato per la forza dell’albero, rimase imprigionato come in una trappola messa lì apposta e divenne pasto per le fiere.[68]

(1106b8) “Se, quindi, ogni scienza”.

La dimostrazione parte dal caso inferiore, e cioè: se la tecnica, che è inferiore, porta a buon termine la sua opera secondo il giusto mezzo, molto di più lo farà la virtù.

“Sto parlando della virtù morale” [1106b16]. Ha aggiunto questo, per precisione, a causa delle virtù teoretiche, le quali non sono caratterizzate dal giusto mezzo (meson), ma dal sovrabbondare, come nel caso dell’acutezza e della solerzia riguardo <alle> matematiche.

“Inoltre l’errare (133) si dà in molti modi” [1106b28–29]. I Pitagorici posero nella colonna dei mali i molti e l’indefinito, in quella dei beni l’uno e il definito, e dicendo: “infatti il male rientra nella sfera dell’indefinito, come hanno immaginato i Pitagorici” [1106b29–30] ha aggiunto “invece il bene fa parte del definito” [1106b30] intendendo dire che anche questo (5) è stato affermato da loro. Poi riporta questo a ciò che ha detto sopra, come segue: “Inoltre l’errare si dà in molti modi, l’essere corretti si dà in un solo modo”, e questo in un senso è facile in un altro difficile.

“Quindi la virtù è uno stato abituale che produce scelte” [1106b36]. La virtù è uno ‘stato abituale’ (hexis): è stato dimostrato che essa è una ‘delle cose dell’anima’; ed è ‘produttiva di scelte’ per il fatto che invece le scienze, sebbene siano anch’esse (10) degli stati abituali, non causano niente in base a una scelta. L’aggiunta “consistente in una medietà (mesotēti)” [1106a36–b1] mostra, allo stesso tempo, sia rispetto a cosa la virtù è una medietà, sia distingue la virtù da certe altre cose, dette passioni, che consistono in una medietà, ma non tra due mali. Infatti il pudore e le emozioni (pathē) simili sono lodevoli e consistono nella medietà, come lo stesso Aristotele mostrerà [1108a36], ma non sono virtù né sono medietà tra due mali. Aggiungendo a ‘medietà’ (15) ‘rispetto a noi’ [1107a1] la separa dalla medietà relativa alle cose. Aggiungendo a tutto ciò le parole ‘determinato razionalmente’ (hōrismenon logoi) [1107a1] la pone al di fuori dei confini dei mali, dato che anche quelli dipendono da una scelta, ma non sono determinati dal retto ragionamento (tōi orthōi logōi) in connessione con il ‘consistere nella medietà (mesotēs)’.[69] E così, tramite la definizione, porta a compimento il suo discorso.

(20) (1107a6) “Per questo motivo secondo l’essenza, e secondo la definizione”.

L’essenza della virtù consiste nell’essere medietà di ciò che nel bene è culmine, <e questa medietà è causa anche dell’essere culmine delle cose che rientrano nel bene>. Infatti il bene viene lodato a causa di essa, e tale discorso viene proposto come una conclusione relativa alla spiegazione (aitia) migliore, cioè quella che dice che la virtù è uno stato abituale, che si trova nel culmine secondo il bene. Ciò (25) che è stato detto prima ha inclusa nel discorso anche la spiegazione, e la ragione (aitia) per cui risulta che essa è il culmine nel bene. Essa sarebbe: l’essere uno stato abituale che produce scelte, relativo alla medietà riguardo alle passioni ed alle azioni, medietà determinata dal retto ragionamento (tōi orthōi logōi) e che è culmine secondo il bene.

Ma coloro che pongono problemi (aporountes) rispetto al fatto che le virtù sono medietà, <e> dicono che, dato che non si può stabilire né l’eccesso né il difetto (30) nelle passioni e nelle azioni (delle cose non definite non è possibile né cogliere il giusto mezzo [meson] né definirlo), la virtù non verrà ad essere medietà tra eccesso e difetto <relativi alle passioni ed alle azioni. Infatti nemmeno riguardo all’audacia si può definire fino a qual punto si dà audacia, come non si può stabilire fino a qual punto si dà vigliaccheria, e lo stesso per gli altri eccessi e difetti>, bene, costoro non contraddicono (antilegoien) in modo corretto.[70] Infatti quello su cui verte la virtù non è un giusto mezzo (meson) secondo la cosa, (134) e non sarà ciò che dista in modo uguale da termini determinati, dato che i termini non sono definiti; al contrario esso costituisce il giusto mezzo (meson) relativo a noi, commisurato a noi e che non eccede né è in difetto. Di modo che, se non è impossibile scoprire ciò che eccede o difetta relativamente a noi, nemmeno sarà impossibile cogliere il giusto mezzo tra quelli.

Inoltre la virtù è detta (5) medietà tra due mali, ma non una medietà tra le estremità dei mali. Infatti non ci sarà spazio per dire: se non sarà noto il male che consiste nell’eccesso e quello che consiste nel difetto, non essendo definito fino a che punto sono mali, allora non sarà nemmeno possibile cogliere il punto intermedio (meson) tra questi. Infatti l’audacia non si estende allo stesso modo della vigliaccheria. La virtù non cerca il giusto mezzo (meson) tra le estremità, (10) ma il giusto mezzo tra le deviazioni che riguardano le estremità.

Il giusto mezzo (meson) tra le cose che rientrano nella virtù non è detto per mescolanza degli estremi, come il grigio, infatti non per tutti gli intermedi tra due cose l’essenza consiste nella mescolanza delle cose di cui sono intermedi: nelle tecniche il giusto mezzo (meson) e il bene non derivano dalla mescolanza degli estremi, ma dal togliere e aggiungere. Così stanno le cose anche per le virtù. Inoltre l’intermedio tra i beni e i mali (15) non deriva dalla mescolanza del bene e del male, come nemmeno chi è progredito (ho prokoptōn) deriva dalla mescolanza del saggio (spoudaios) e dello stolto (phaulos), essendo intermedio (meson) tra loro per la mescolanza di quelli. Nemmeno il numero sei è una mescolanza del dieci e del due, né per questo motivo sta in mezzo (meson) tra di essi, e nemmeno l’intermedio (meson) degli enti continui deriva dalla mescolanza degli estremi, come il centro del cerchio non è intermedio (meson) della circonferenza in base alla mescolanza (20) di essa. Infatti certe cose sono intermedie non per mescolanza di certe cose, ma vengono dette [tali] in base alla loro quantità, infatti in quel caso l’intermedio è di un altro tipo.[71]

(1107a22) “E come di temperanza e coraggio”.

Ricorda per prime il coraggio e la temperanza per la ragione che le passioni (pathē) su cui si esercitano queste virtù sono le più necessarie, le più naturali e quelle maggiormente bisognose di aiuto, (25) dato che ci serviamo di tali virtù in moltissimi casi.

“Quelli universali sono più comuni” [1107a30]. Nelle scienze il convincimento non deriva dai casi singoli, infatti le dimostrazioni si fanno tramite l’universale, e per mezzo di esse si dimostrano, e acquistano credibilità, le cose che ne dipendono. Infatti il triangolo scaleno ha i tre angoli uguali a due retti perché ogni triangolo li ha. Per questa ragione l’universale nelle scienze non è vuoto (30) e lo si può cogliere separatamente dai casi singoli. Nel campo della prassi i discorsi che la riguardano traggono la capacità di convincimento dai casi particolari, infatti le azioni riguardano i casi particolari e avvengono in essi. Infatti non è credibile che l’elleboro purifichi, se ciò non corrisponde ai casi particolari, né che il caldo sciolga né il freddo condensi. (135) Infatti a partire dal fatto che alcuni sono stati purificati dall’elleboro si arriva ad essere convinti che l’elleboro purifichi tutti. Allo stesso modo, anche nel campo della prassi e delle scelte quanto si afferma deve corrispondere alle scelte: se uno sostenesse che la salute è un indifferente ma non conservasse più (5) l’atteggiamento indifferente (to adiaphoron phulattei) per quanto riguarda le sue scelte e gli sforzi relativi alla salute, il [suo] discorso universale risulterebbe vuoto (kenos). E chi dicesse che queste cose sono indifferenti sì, ma per il saggio (tōi sophōi), e concedesse che nessuno è un saggio secondo il tipo di saggio che lui ammette, dovrebbe ammettere che le cose che dice non sono capaci di concordare con le sue azioni e le sue scelte.

(1107a32) “Questo si può cogliere a partire dallo schema”.

(10) Aristotele intende proporre un diagramma che mostri le emozioni (pathē) che sottostanno (hupokeimena) alle virtù, la virtù propria di ciascuna di esse singolarmente, nonché le forme di vizio, sia l’eccesso sia il difetto. Con questo diagramma si accorderanno le tesi che stabilirà successivamente [1114b26–1115a4], tramite le quali dimostra che le virtù sono medietà, e che la definizione (logos) della virtù, stabilita prima, si adatta a ciascuna delle virtù particolari [1106b36–1107a2]. (15) Per questa ragione ora propone solo il diagramma seguente come prova di queste caratteristiche e mostra in che modo le virtù consistano nella medietà e i vizi nell’eccesso e nel difetto. Più avanti, riprendendo il discorso su di esse, aggiungerà le specificazioni che mancano [III 9/6–IV].

“Riguardo alle forme di paura e di ardimento” [1107a33]. Riguardo alle forme di paura e di ardimento pone come virtù il coraggio, che sceglie e mette in pratica il giusto mezzo (meson) tra queste emozioni (pathē) (20). Dice che non ha nome quel vizio che eccede nella mancanza di paura (molti di questi estremi non hanno nome), ma dice che costui sarà in qualche modo un impavido (aphobos), ma non lo è come si deve (infatti si dice impavido anche il coraggioso, per la ragione che non teme le cose che non si devono temere) e chi eccede nell’essere ardito (tharrein) è un temerario (thrasus). Sembrerebbe potersi attribuire (sunempitein) alla stessa persona l’eccesso in entrambi i sensi, come avviene (25) nella maggior parte dei casi: per questo sono detti ‘temerari’, secondo l’uso, coloro che eccedono in entrambe le passioni sopra dette; ora, nella temerarietà si aggiunge, oltre l’essere impavido, anche l’essere capace di affrontare in modo irrazionale le cose temibili. Invece quello che eccede nell’aver paura, che viene a trovarsi nell’emozione contraria a quella che eccede nell’essere impavido, e manca di ardimento, è vile. Riguardo al vile il discorso si converte: infatti chi (30) eccede nell’avere paura manca del tutto di ardimento, e chi manca di ardimento eccede nell’avere paura, perciò il vizio che deriva da queste cose è uno solo. Invece riguardo all’ardimento non è così, infatti anche chi eccede nell’essere ardito è impavido, ma per nulla l’impavido è [solo] un temerario, infatti l’impavidità caratterizza anche il coraggioso. Quale è la differenza? che in uno l’ardimento è irrazionale, nell’altro è secondo ragione (meta logou).

(136) (1107b5) “Riguardo ai dolori, temperanza è medietà”.

Chiama la temperanza (sōphrosunē) medietà riguardo ai piaceri e ai dolori, ma non riguardo a tutti i piaceri, e riguarda meno i dolori che i piaceri. Infatti il piacere specifica (eidopoiei) la temperanza ed i vizi contrari ad essa, più del dolore. Dicendo (5) ora che la temperanza è medietà, ma non riguardo a tutti i piaceri, quando parlerà in modo specifico della temperanza [III 13/10] dirà che riguarda i piaceri corporei, e soprattutto quelli relativi al tatto e dirà anche perché essa riguarda meno i dolori che i piaceri, cioè che la temperanza riguarda i dolori nella misura in cui non ci si addolora per la mancanza dei piaceri. Aristotele chiama intemperanza (10) l’eccesso che riguarda questi piaceri e dice che non vi sono molti che difettano riguardo ai piaceri. Per questa ragione non si attribuisce un nome a questo vizio, né a colui che lo possiede, ma Aristotele dice che costui è ‘insensibile’ (anaisthēton), sebbene non sarebbe questo il nome appropriato per il vizio opposto a quello dell’intemperante. Infatti costui dovrebbe altrettanto eccedere nel provare dolore quanto difettare nel piacere, il che (15) non è proprio di chi è insensibile […].[72]

(1108a4) “Si danno anche riguardo all’ira eccesso, difetto e medietà”.

Dopo la fierezza (megalopsuchia) tratta della mitezza, per la ragione che anch’essa è connessa all’onore. La mitezza infatti castiga l’ira (thumos), e la castiga per mezzo (20) del disonore (atimia). Se questo è vero, a ragione la mitezza è stata posta dopo la fierezza, e non dopo il coraggio. Anch’essa riguarda l’impetuosità (thumos), come fa il coraggio, oppure non è corretto dire che il coraggio riguarda l’impetuosità, per la ragione che così l’iracondo (orgilos) verrebbe ad essere o coraggioso o temerario, mentre le cose stanno diversamente. Infatti i vili sono particolarmente iracondi per il fatto che sono pusillanimi. Il coraggioso è coraggioso in altro modo, anche se lo è a causa dell’ira (thumōi), e l’ira (25) (thumos) è desiderio di ricambiare il male (orexis antilupēseōs),[73] quindi il coraggio non sarebbe fine a se stesso, né virtù per se stesso, ma per qualcos’altro.

“Diciamo chi è nel giusto mezzo ‘mite’” [1108a5–6]: non ha detto questo come se lui stesso coniasse il nome di ‘mitezza’ (praotēs), infatti questo termine si trova già in Platone[74] e in altri più antichi, ma era usato per altri significati (allōn), Aristotele invece lo introduce nel significato presente. Infatti ‘la mitezza’ (praotēs) si usa per indicare chi è tranquillo (hēsuchos), (30) e sempre chi è mite è apparentato a chi è tranquillo. Allo stesso modo anche il nome ‘iracondo’ viene usato in modo naturale, ma siccome Aristotele mette tale termine in relazione all’eccesso, sembra coniare una nuova denominazione. Così pure, riguardo al difetto, noi diciamo ‘flemmatico’ (aorgētos), e Aristotele conia come termine nuovo solo il termine ‘flemma’ (aorgēsia).

(137) (1108a9) “Vi sono anche altre tre medietà”.

Vi sono tre medietà, cioè sincerità, amabilità, arguzia, che sono virtù riguardo a certi oggetti propri, e dal punto di vista della messa in pratica la loro differenza è chiara. Infatti chi non innalza le cose proprie né le reprime rispetto al troppo o rispetto al poco è moderato (mesos). (5) Come potrà essere degno di lode, colui che sceglie la via media (meson) riguardo a † quelle cose in relazione a un discorso veritiero? Infatti è chiaro che è da preferirsi l’essere sinceri sempre e in ogni caso, e non moderatamente (mesōs). O piuttosto si dà il caso in cui ci si deve servire anche della menzogna, come di una medicina, secondo quanto dice Platone?[75] Ma è fuori luogo (atopon) proclamare certe cose, quando non si deve e riguardo a chi non si deve, anche se sono vere. Infatti colui che (10) eccedesse in questo risulterebbe cattivo e millantatore: anche questo comportamento sarà proprio della millanteria, non solo il mentire per eccesso. O piuttosto non si deve dire, dell’essere sinceri, che è un giusto mezzo (meson) e che è mediocremente (mesōs) sincero, ma anche † chi si attiene alla virtù e allo stato abituale intermedio (mesēn hexin) nell’essere veritiero, costui risulterà essere una persona sincera, che non distorce la verità verso l’eccesso o il difetto. La persona sincera risulterà essere quello che ha un atteggiamento moderato (meson) nel dire la verità, nel momento opportuno, (15) a chi si deve e sulle cose in cui si deve. O piuttosto è veritiero ed è nella giusta misura (mesotēs) chi dice che si danno le cose che si danno a lui. <e invece eccede e non è affatto sincero, ma è menzognero, colui che dice che si danno le cose che non si danno>, ed è un millantatore. Costui rientra nella falsificazione delle verità, e non nella verità. Invece è ironico colui che mente rispetto al dire meno [di ciò che è], nel senso che questi due stanno falsificando (20) la verità, mentre l’altro dice il vero.[76]

“Vi sono anche nelle passioni” [1108a30–31]. Ci si chiede come, dopo aver detto che riguardo alle passioni (pathē) non si dà né lode né biasimo, ora invece dice che vi sono alcune passioni degne di biasimo e di lode. O piuttosto non chiama ‘passioni’ in senso proprio il pudore e lo sdegno, e neppure i loro eccessi e difetti, ma [li considera] atteggiamenti (diatheseis)[77] buoni o non buoni che si danno soltanto riguardo a certe passioni (25) ma non riguardo alle azioni? Infatti la virtù è uno stato abituale che produce scelte riguardo alle passioni ed alle azioni. Inoltre le ‘passioni’ dette in questo senso hanno una misura, le altre sono senza misura, e <rispetto alle> passioni dette in senso proprio non si dà né lode né biasimo.

(1108a35) “Sdegno è medietà tra invidia [e malevolenza]”.

Uno potrebbe ragionevolmente domandarsi in che senso lo sdegno è una medietà tra invidia e malevolenza e tra l’eccesso e il difetto di dolore e piacere (35), che si danno in connessione con ciò che capita al nostro prossimo. Infatti sembra che sia proprio del medesimo carattere (138) l’addolorarsi per i successi e il rallegrarsi per le disgrazie dei buoni, cose che Aristotele stesso dimostra nella Retorica. [78] Infatti colui che si addolora per i successi dei buoni è la stessa persona che sarebbe anche capace di godere quando ai buoni[79] accadono delle disgrazie. Se le cose stanno così gli stati abituali dell’invidia (5) e della malevolenza non potranno distare tra loro come l’eccesso e il difetto, dato che entrambi saranno propri della stessa persona, e se non sono all’opposto neanche lo sdegno sarà la medietà tra di loro. Se dunque è stato detto che lo sdegno (nemesis) è medietà, non lo è tra quelle cose, ma tra l’invidia (phthonos), che è il dolore per i successi dei buoni e, non la malevolenza, ma piuttosto la disposizione di chi si addolora per tutti i successi, chiamata disposizione di chi è penoso e molesto (tou epilupou kai lupērou); (10) essa tuttavia è detta così per l’eccesso nel provare dolore, (infatti lo sdegno è intermedio tra questi, essendo dolore [solo] per i successi dei cattivi), ma è medietà tra l’invidia e la malevolenza, come è stato detto. O piuttosto è possibile che il malevolo (epikairekakos) sia il contrario di chi si sdegna (nemestikos), colui che, come l’invidioso (phthoneros) gode di tutti i mali ed eccede nel goderne. E infatti anche Aristotele ora sembra far menzione così (15) dell’invidia e della malevolenza. Infatti dice che l’invidioso “si addolora per i successi di tutti” [1108b5], il malevolo gode di tutti coloro che subiscono mali, e sembra che non siano propri della stessa persona l’addolorarsi e poi di nuovo il godere senza misura.

(1108b7) “Sulla giustizia”.

(20) Siccome la giustizia è uno stato abituale riguardante sia la distribuzione dei beni comuni sia i contratti, che da una parte ha la caratteristica di distribuire l’uguale secondo il valore, e dall’altra di correggere la disuguaglianza che si genera nei contratti a causa dell’avidità di eccedere, anche per questo motivo aveva bisogno di un discorso più lungo. Rinvia a quanto segue [EN V] il discorso su di essa, e su come la giustizia sia una medietà (mesotēs).

“Tutte si oppongono in qualche modo a tutte” [1108b13] ‘in qualche modo’ è detto bene, infatti non lo fanno (25) in assoluto. Se fosse così, si eliminerebbe il principio che una cosa ha un solo contrario. Quindi tutte si oppongono tutte a tutte ‘in un certo modo’ e non in assoluto. In quanto i contrari sono distanti tra loro al massimo grado, in essi individuiamo gli estremi che hanno la massima distanza (muovendo da un estremo delle azioni e delle passioni per prima cosa ci imbattiamo nella misura intermedia [mesōi] di esse, e alla fine (30) nell’altro estremo), in questo senso l’eccesso è contrario al difetto. Infatti, come l’uguale è intermedio, così lo è anche il giusto mezzo, e si oppone agli estremi non per il fatto di avere la massima distanza (infatti è vicino a questi, come ha detto anche Aristotele, e più simile a loro) ma si oppone come il misurato allo smisurato <e come il determinato all’indeterminato, infatti si sceglie sempre come giusto mezzo ciò che è> determinato e commisurato a noi, e (139) non quello che lo è riguardo alla cosa. Si scelgono infatti come estremi l’incommensurabile e lo smisurato, in quanto sono disprezzabili e in quanto sono distanti al massimo dal commensurabile e dal misurato ma non perché sono l’estremo <infatti si oppongono gli uni agli altri in quanto estremi>: quelli che sono senza misura si oppongono al giusto mezzo. Infatti dall’eccesso è più facile (5) arrivare al difetto e da questo a quello, piuttosto che al giusto mezzo in questo senso. Vi è infatti una certa comunanza reciproca tra gli estremi, sulla base della loro incommensurabilità, e in base a questa vi è differenza dal giusto mezzo e opposizione ad esso, come è chiaro anche in base ai casi singoli. Infatti per il vile è più facile compiere un’azione temeraria che una coraggiosa. Di modo che vi è opposizione e scontro degli estremi verso il giusto mezzo e di quello contro questi (10), sulla base dell’eccesso e del difetto reciproco. E questa è la ragione per cui si oppongono ‘in un certo modo’ e non ‘in assoluto’.

(1109a30) “Per questo colui che tende al giusto mezzo deve … ”.

Si deve segnalare che qui sembra che uno dia abitudini a se stesso e a causa sua, infatti l’educazione dei fanciulli è cosa che avviene in altro,[80] ma quando si è cresciuti è possibile anche dare abitudini a se stessi (15), avendo consapevolezza che, indipendentemente dalle abitudini corrispondenti, non è possibile che si generino in noi gli stati abituali (hexeis) propri delle virtù. Per conseguenza anche le abitudini risultano essere volontarie e dipendere da noi (hekousia kai eph’hēmin). E tale esercizio verrà ad essere un tipo di abitudine (ethos) autonomo e indipendente (autexousion), e si genererà da se stesso. Se le cose stanno così, non si può escludere che colui che è stato educato bene al libero arbitrio (tou autexousiōs) fin dalla fanciullezza possa assumere l’abito della virtù in modo volontario (kata to hekousion), e non per necessità (mē anankēi).

(20) “Fuori da questo fumo e dal vortice” [1109a32]. Queste parole secondo Omero sono dette da Circe e non da Calipso. Compara il fumo e il vortice all’estremo nelle azioni e passioni, e il Filosofo mostra l’aspetto che si deve sfuggire in esso. Dice che è un vizio più grande quello che è più contrario al giusto mezzo, è più dissimile da esso e più opposto al fatto che noi ci adattiamo al giusto mezzo, e che è un vizio minore l’altro, quello verso cui è chiaro che noi dobbiamo (25) portarci all’inizio, assumendone le abitudini, per allontanarci da ciò che è più contrario al giusto mezzo.

(1109b9) “Lo stesso sentimento che gli anziani provarono”.

Tramite questo esempio erudito Aristotele indica che noi non dobbiamo allontanare da noi il piacere, perché sappiamo che la sua natura è cattiva (quale (30) merito si potrebbe avere nei riguardi dell’avversione contro cose turpi, essendo la cosa odiosa per se stessa?) ma, anche se gli anziani riconoscono il piacere che deriva da lei e la bellezza, come la bellezza di Elena, ugualmente, in vista dei risultati malvagi disapprovano ed evitano il piacere, anche se ci affascina, [dice ciò] in modo che (140) non ci sfugga che ci procuriamo le conseguenze più turpi a causa di un piccolo piacere e un temporaneo diletto.

“Non è facile determinare” [1109b14–15]. In tali cose non bisogna <cercare> l’esattezza, come se la dovessimo trovare mediante il ragionamento, né bisogna cedere a coloro che richiedono ragionamenti esatti, ma bisogna premettere che la natura delle cose (5) è tale da non ammettere la determinatezza e l’esattezza, che richiedono coloro che fanno queste domande. Infatti come non è possibile stabilire precisamente con il ragionamento quale delle aggiunte faccia nascere il mucchio, allo stesso modo non è possibile nella prassi. Come nelle azioni colui che si allontana un poco [dal giusto mezzo] non è biasimato, ma lo è chi si allontana di più, così in quel caso l’aggiunta di una piccola quantità non crea un mucchio. Infatti il mucchio (10) si crea ad un certo momento tramite l’aggiunta di molte cose, ma non è possibile stabilire con il ragionamento il quando[81] questo avvenga. Infatti il giudizio sulle cose sensibili non lo dà il ragionamento ma la sensazione.

“Esse rientrano nei casi singoli” [1109b22–23], intende le azioni, nelle quali si cerca il giusto mezzo, infatti queste riguardano i casi singoli: nei casi singoli di cui giudice è la sensazione e non il ragionamento, non è possibile (15) stabilire il giusto mezzo con il ragionamento. E vengono dette ‘sensazione’, in generale, sia la percezione sia l’esperienza (peira) delle azioni e delle passioni.

“È opportuno tendere maggiormente” [1109b24–25], o verso la passione e verso l’azione propria di quell’estremo che ci permette di modificarci in modo che non ci risulti difficile liberarci da qualcuna di esse, oppure verso l’uno e l’altro, nel senso che per le cose per cui la mancanza è maggiormente contraria [al giusto mezzo], bisogna (20) tendere all’eccesso, e per quelle cui lo è l’eccesso, al difetto, così come ha detto prima.

Ringraziamenti: Vorrei ringraziare F. Alesse, R. Chiaradonna, M. Rashed e R. Salles per avermi fornito molti utili suggerimenti. M. Rashed ha anche rivisto l’intera traduzione del testo, segnalando varie improprietà e proponendo i necessari miglioramenti. Ovviamente la responsabilità di ogni eventuale errore rimane a mio carico.


Corresponding author: Carlo Natali, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, Università Ca’ Foscari Venezia, Venice, Italy, E-mail:

Bibliografia

Annas, J. 2002. “Platonist Ethics and Plato.” In Le style de la pensée. Recueil de textes en hommage à Jacques Brunschwig, edited by M. Canto-Sperber, and P. Pellegrin, 1–24. Paris: Les Belles Lettres.Search in Google Scholar

Baltussen, H. 2016. The Peripatetics. London: Routledge.10.4324/9781315719092Search in Google Scholar

Barnes, J. 1983. “Medicine, Experience and Logic.” In Science and Speculation. Studies in Hellenistic Theory and Practice, edited by J. Barnes, J. Brunschwig, M. Burnyeat, and M. Schofield, 24–68. Cambridge: Cambridge University Press.Search in Google Scholar

Becchi, F. 1980. “Variazioni funzionali nei Magna moralia: la virtù come impulso razionale al bene.” Prometeus 6: 201–26.Search in Google Scholar

Becchi, F. 1984. “Sui presunti influssi platonici e medioplatonici nel commento di Aspasio all’Etica Nicomachea.” Sileno 10: 63–81.Search in Google Scholar

Becchi, F. 1994. “Aspasio, commentatore di Aristotele.” In Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, edited by W. Haase, and A. Temporini, Vol. II, 36.7, 5365–96. Berlin: De Gruyter.10.1515/9783110883732-022Search in Google Scholar

Boys-Stones, G. 2018. Platonist Philosophy 80 BC to AD 250. An Introduction and a Collection of Sources in Translation. Cambridge: Cambridge University Press.10.1017/9781139050203Search in Google Scholar

Brouwer, R.. 2014. The Stoic Sage. The Early Stoics on Wisdom, Sagehood and Socrates. Cambridge: Cambridge University Press.10.1017/CBO9781139162487Search in Google Scholar

Chiaradonna, R., and M. Rashed, eds. 2020. Boéthos de Sidon. Exégète d’Aristote et philosophe. Berlin: De Gruyter.10.1515/9783110699845Search in Google Scholar

Des Places, A. 1964. Lexique de la langue philosophique et réligieuse de Platon. Paris: Les Belles Lettres.Search in Google Scholar

Destrée, P. 2011. “Aristotle on Responsibility on One’s Character.” In Moral Psychology and Human Action in Aristotle, edited by M. Pakaluk, and G. Pearson, 285–318. Oxford: Oxford University Press.10.1093/acprof:oso/9780199546541.003.0012Search in Google Scholar

Dickey, E. 2007. Ancient Greek Scholarship. Oxford: Oxford University Press.Search in Google Scholar

Donini, P. L. 1974. Tre studi sull’Aristotelismo nel II sec. d.C. Torino: Paravia.Search in Google Scholar

Eliasson, E. 2013. “The Account of the Voluntariness of Virtue in the Anonymous Peripatetic Commentary on Nicomachean Ethics 2–5.” Oxford Studies in Ancient Philosophy 44: 195–231.10.1093/acprof:oso/9780199677887.003.0006Search in Google Scholar

Felicianus, J. B. 2006. Eustratius, Aspasius, Michael Ephesius et alii, Aristotelis Stagiritae Moralia Nicomachia, übersetzt von Johannes Bernardus Felicianus, Neudruck der Ausgabe Paris 1543, mit einer Einleitung von David A. Lines. Stuttgart & Bad Cannstatt: Frommann-Holzboog.Search in Google Scholar

Gigon, O. 1953. Kommentar zum ersten Buch von Xenophons Memorabilien. Basel: Reinhardt.Search in Google Scholar

Golitsis, P. 2015. “On Simplicius, Life and Works. A Response to Hadot.” Aestimatio 12: 56–82.10.33137/aestimatio.v12i0.29336Search in Google Scholar

Goulet, R. 1989. “Aristonymos.” In Dictionnaire des philosophes antiques, edited by R. Goulet, Vol. I, 405. Paris: CNRS Éditions.Search in Google Scholar

Guérad, A. 1994. “Denys d’Héraclée.” In Dictionnaire des philosophes antiques, edited by R. Goulet, Vol. II, 724–5. Paris: CNRS Éditions.Search in Google Scholar

Hadot, I. 1990. Simplicius. Commentaire sur les Catégories, Fasc. 1: Introduction, première partie (p. 1–9,3 Kalbfleisch). Traduction commentée sous la direction de I. Hadot. Leiden: Brill.10.1163/9789004320727_002Search in Google Scholar

Henderson, J. B. 1991. Scripture, Canon and Commentary. A Comparison of Confucian and Western Exegesis. Princeton: Princeton University Press.10.1515/9781400861989Search in Google Scholar

Heylbut, G. 1892. Eustratii et Michaelis et Anonyma in Ethica Nicomachea Commentaria, edidit. Berlin: Reimer.10.1515/9783111434995Search in Google Scholar

Inwood, B. 2014. Ethics after Aristotle. Cambridge Mass & London: Harvard University Press.10.4159/harvard.9780674369788Search in Google Scholar

Joachim, H. H. 1955. Aristotle. The Nicomachean Ethics. Oxford: Clarendon Press.Search in Google Scholar

Karamanolis, G. 2006. Plato and Aristotle in Agreement? Platonists on Aristotle from Antiochus to Porphyry. Oxford: Clarendon Press.10.1093/0199264562.001.0001Search in Google Scholar

Konstan, D., transl. 2001. Aspasius on Aristotle Nicomachean Ethics 8, with Anonimous Paraphrase of Aristotle Nicomachean Ethics 8 and 9 and Michael of Ephesus on Aristotle Nicomachean Ethics 9. London: Duckworth.Search in Google Scholar

Lefebvre, D. 2020. “Les fragments éthiques de Boéthos de Sidon.” In Boéthos de Sidon, exégète d’Aristote et philosophe, edited by R. Chiaradonna, and M. Rashed, 403–82. Paris: Les Belles Lettres.10.1515/9783110699845-011Search in Google Scholar

Mercken, H. F. 1973. The Greek Commentaries on the Nicomachean Ethics of Aristotle in the Latin Translation of Robert Grosseteste, Bishop of Lincoln † 1253, Vol. I: Eustratius on Book I and the Anonymous Scholia on Books II, III, and IV. Critical Edition with an Introduction. Leiden: Brill.Search in Google Scholar

Mercken, H. F. 1991. The Greek Commentaries on the Nicomachean Ethics of Aristotle in the Latin Translation of Robert Grosseteste, Bishop of Lincoln † 1253, Vol. III: The Anonymous Commentator on Book VII, Aspasius on Book VIII and Michael of Ephesus on Books IX and X. Critical Edition with an Introduction. Leuven: Leuven University Press.Search in Google Scholar

Michelet, C. L. 1835. Commentaria in Aristotelis ethicorum Nicomacheorum libri decem. Berlin: Schlesinger.Search in Google Scholar

Mondrain, B. 2000. “La constitution du corpus d’Aristote et de ses commentateurs aux XIIIe-XVIe siècles.” Codices manuscripti 29: 11–29.Search in Google Scholar

Moraux, P. 2000. L’aristotelismo presso I Greci, trad. ital. (ed. or. 1984). Milano: Vita e Pensiero.Search in Google Scholar

Natali, C. 2004. L’action éfficace. Études sur la philosophie de l’action chez Aristote. Louvain-La-Neuve: Peeters.Search in Google Scholar

Natali, C. 2008. “Aspasius on Nicomachean Ethics 7: An Ancient Example of ‘Higher Criticism’.” Oxford Studies in Ancient Philosophy 33: 347–67.Search in Google Scholar

Petrucci, F. M. 2022. “Isagogical Conceptions in the Peripatetic Exegesis of the Post-Hellenistic Age: Aspasius and the Others.” In Isagogical Crossroads from the Early Imperial Age to the End of Antiquity, edited by F. M. Petrucci, and A. Motta, 16–32. Leiden: Brill.10.1163/9789004506190_003Search in Google Scholar

Praechter, K. 1973. Kleine Schriften. Hildesheim: Olms.Search in Google Scholar

Primavesi, O. 2007. “Ein Blick in den Stollen von Skepsis. Vier Kapitel zur frühen Überlieferung des Corpus Aristotelicum.” Philologus 151: 51–77. https://doi.org/10.1515/phil-2007-0105.Search in Google Scholar

Ramsauer, G. 1878. Aristotelis Ethica Nicomachea, edidit et commentavit. Leipzig: Teubner.Search in Google Scholar

Rashed, M. 2021. Ptolémée «Al–Gharib». Épitre à Gallus sur la vie, le testament et les écrits d’Aristote, texte édité et traduit. Paris: Les Belles Lettres.Search in Google Scholar

Sharples, R. W. 1989. “The School of Alexander?” In Aristotle Transformed. The Ancient Commentators and Their Influence, edited by R. Sorabji, 83–111. Ithaca: Cornell University Press.Search in Google Scholar

Sharples, R. W. 1990. Alexander of Aphrodisias. Ethical Problems. London: Duckworth.Search in Google Scholar

Sharples, R. W. 2010. Peripatetic Philosophy 200 BC to AD 200. Cambridge: Cambridge University Press.10.1017/CBO9780511781506Search in Google Scholar

Viano, C. 2006. La matière des choses. Le livre IV des Météorologiques d’Aristote et son interprétation par Olympiodore. Paris: Vrin.Search in Google Scholar

Viano, C. 2013. “Aristotele, Eraclito e la forza irresistibile del thumos, 22 B 85 DK.” Doispontos 10: 169–88. https://doi.org/10.5380/dp.v10i2.33592.Search in Google Scholar

Wilberding, J. 2019. Michael of Ephesus on Aristotle Nicomachean Ethics 10 with Themistius On virtue. London: Bloomsbury.Search in Google Scholar

Published Online: 2023-06-21
Published in Print: 2023-06-27

© 2023 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

Downloaded on 28.4.2024 from https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/elen-2023-0001/html
Scroll to top button