- 1 Come scriveva Marconi (1994: 7), “Rorty è oggi uno dei filosofi più letti e discussi.” Anche in Fra (...)
- 2 Non si può, tuttavia, evitare di sottolineare come questo abbia prodotto ben pochi studi approfondi (...)
11. Alla fine del secolo scorso, Richard Rorty è stato un pensatore importante non solo nel mondo anglo-americano, ma anche per una parte significativa della filosofia e della cultura italiane.1 Tutte le sue opere più rilevanti furono allora tradotte in italiano, talora in tempo reale o quasi, e diedero luogo a molteplici discussioni, polemiche e prese di posizione a cui parteciparono voci non secondarie della filosofia del tempo.2 La prima domanda che occorre, pertanto, porci è con quali obiettivi in vista e per soddisfare quali bisogni o mancanze Rorty fu introdotto in Italia e fatto conoscere al pubblico filosofico italiano.
- 3 Per farsi una prima idea del clima e dei problemi che agitavano la filosofia italiana nel corso deg (...)
- 4 Basti ricordare che la fondazione della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) risale solo (...)
- 5 Su alcune pecche e limiti di questa ricostruzione del percorso filosofico di Rorty si veda Calcater (...)
- 6 Come si legge nella Nota introduttiva alla traduzione italiana di La filosofia e lo specchio della (...)
- 7 Dalla prospettiva italiana, i due orientamenti filosofici non apparivano così distinti e diversi co (...)
- 8 Come scrive Marcuse (1967: 191), in quanto espressione estrema del “pensiero positivo,” la filosofi (...)
2Con una certa plausibilità, e senza alcuna pretesa di ricostruire, nemmeno in abbozzo, la situazione filosofica in Italia alla fine del Novecento, mi sembra di poter suggerire che il pensiero di Rorty rispondeva, anzitutto per stile, spirito e richiami filosofici, ad alcune esigenze allora molto diffuse e sentite.3 La prima aveva sicuramente a che fare con quella filosofia analitica che nei due decenni finali del secolo scorso iniziò a trovare spazio e ascolto anche in Italia nelle Università, nei convegni e nelle riviste,4 non senza, peraltro, suscitare sospetti, timori e ripulse. In questo clima, che meriterebbe sicuramente qualche indagine storico-filosofica più approfondita, appariva importante richiamarsi, soprattutto da parte di chi provava nei confronti di quella filosofia avversione o diffidenza, a un filosofo che era stato, a quel che sembrava e si raccontava, un filosofo analitico militante, ma che della filosofia analitica aveva poi messo in evidenza, con insistenza e arguzia, le molte debolezze e le diverse distorsioni.5 Per chi voleva opporsi alla filosofia analitica o contrastarne l’avanzata era, insomma, importante dar la parola a un filosofo che quella filosofia era in grado di incalzare, per così dire, sul suo stesso terreno, avendola conosciuta molto da vicino e praticata con grande successo e non pochi riconoscimenti.6 Tra l’altro, si potevano così preventivamente parare le accuse di quanti sostenevano che molte delle critiche allora rivolte alla filosofia analitica avevano come bersaglio non la filosofia analitica “così come effettivamente era,” ma una sorta di fantoccio prodotto da una mescolanza di ignoranza, pregiudizi, paure e preclusioni ideologiche. Non va, infatti, dimenticato che l’idea che parecchi filosofi italiani si erano fatti della filosofia analitica era ben lungi dall’essere chiara e univoca. Per un verso, con “filosofia analitica” ci si riferiva a quella presunta forma di soggezione della filosofia alla scienza (o, come preferivano dire gli heideggeriani, alla scienza-tecnica) che sarebbe stata teorizzata e praticata dai neopositivisti, prima e dopo la loro fuga dall’Europa nazista, e che sarebbe stata alla base del loro programma apertamente anti-metafisico, per non dire anti-filosofico. Dall’altro,7 si avevano in mente quei cosiddetti “filosofi del linguaggio ordinario” nei confronti dei quali molti sembravano condividere quanto aveva scritto qualche anno prima Herbert Marcuse, quando aveva osservato che una filosofia come quella del “secondo” Wittgenstein, di John L. Austin e di Gilbert Ryle, segnava “il trionfo del pensiero positivo,” ossia di un pensiero che, trattando in “modo sprezzante le alternative all’uso comune delle parole,” provvedeva “una giustificazione intellettuale per quello che la società ha da tempo realizzato – vale a dire, la denigrazione dei modi alternativi di pensare che contraddicono l’universo stabilito di discorso” (Marcuse 1967: 186-94).8
- 9 Ovviamente, non va dimenticato che Marconi e Vattimo condividevano lo stesso maestro, Luigi Pareyso (...)
- 10 Si ricordi che il capitolo 7 di La filosofia e lo specchio della natura si intitola “Dall’epistemol (...)
3Ma se Rorty poteva servire alla causa degli anti-analitici, egli poteva anche rappresentare, non senza un qualche sentore di paradosso, un luogo d’incontro e di scambio tra i filosofi analitici e quei filosofi che si riconoscevano in altri orientamenti di pensiero, in particolare nella tradizione ermeneutico-heideggeriana. In effetti, un filosofo come Rorty che parlava la lingua degli analitici, ma che comprendeva e, in parte, parlava anche quella, per esempio, di Martin Heidegger o di Hans-Georg Gadamer e che, a differenza di molti analitici, non disdegnava affatto di confrontarsi con la storia della filosofia poteva essere letto anche da un analitico, anche se scriveva di Jacques Derrida o di Jean-François Lyotard, così come poteva essere letto da chi analitico non era, anche quando scriveva di Quine o di Davidson. Non può, allora, stupire che la Nota introduttiva alla traduzione italiana di La filosofia e lo specchio della natura porti la firma congiunta di Diego Marconi, uno tra i più noti e influenti filosofi analitici, e di Gianni Vattimo, uno degli alfieri del pensiero ermeneutico-heideggeriano,9 e che essa rappresenti un evidente tentativo di rendere intelligibile il progetto filosofico di Rorty sia ai lettori analitici sia a quelli attirati (o incuriositi) dal suo approdo “ermeneutico.”10
- 11 Da questo punto di vista, potremmo dire che la sorte di Rorty è stata, per certi aspetti, simile a (...)
- 12 Almeno nella misura in cui era in gioco la figura di Charles S. Peirce, il pragmatista che gli anal (...)
4In realtà, le cose sono andate diversamente da come ci si aspettava e forse si sperava. Nel corso degli anni, infatti, Rorty ha finito con l’essere disconosciuto sia dagli analitici, che si sono sempre meno riconosciuti nei suoi atteggiamenti filosofici e nella sua stessa scrittura filosofica, sia dai filosofi ermeneutico-heideggeriani, a cui il suo pensiero è apparso ancora troppo “analitico” e, in ogni caso, ben lontano dalla radicalità che essi cercavano nella filosofia.11 Del resto, è difficile pensare che questi ultimi potessero riconoscersi in un filosofo che poteva scrivere che, una volta ammesso che “forse non ci sono questioni centrali o fondazionali in filosofia,” ciò che ci resta potrebbe essere “soltanto una filosofia come un curiosare” (Rorty 1994b: 135). Va anche sottolineato come il richiamo insistito di Rorty al pragmatismo americano, se poteva risultare non sgradito agli analitici,12 non era sicuramente fatto per convincere i non-analitici, soprattutto di ascendenza heideggeriana, per molti dei quali il pragmatismo non era che una delle tante manifestazioni, e sicuramente non tra le più raffinate, di un’epoca dominata dalla “desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato” (Heidegger 1990: 48).
- 13 L’“anti-fondazionalismo” era strettamente legato ad atteggiamenti che potremmo chiamare “anti-reali (...)
- 14 Ovviamente, in quegli stessi anni erano presenti nella filosofia italiana anche molti altri e diver (...)
- 15 A creare questa atmosfera contribuirono diversi apporti e influenze, da Heidegger e l’ermeneutica f (...)
- 16 Non va dimenticato che Gargani e Rorty condividevano lo stesso interesse per Wittgenstein e che la (...)
5Ma c’è anche una seconda, e forse più importante, ragione che può spiegare la rilevanza riconosciuta a Rorty nella filosofia italiana degli ultimi due decenni del secolo scorso. In effetti, appare abbastanza evidente come molte idee e atteggiamenti filosofici di Rorty fossero, sotto più di un aspetto, in sintonia con un’atmosfera “anti-fondazionalista”13 che si era diffusa in quegli stessi anni nella filosofia italiana14 e che aveva condotto a parlare con sempre più insistenza di “crisi della ragione,” di “sapere senza fondamenti” o di “pensiero debole.” Ovviamente, questo “anti-fondazionalismo” non era un prodotto esclusivamente autoctono,15 ma ebbe in Italia sviluppi intensi e, per alcuni versi, originali. Ad ogni modo, non è un caso che due dei filosofi che più contribuirono a far conoscere Rorty in Italia siano stati Gianni Vattimo, uno dei curatori del volume Il pensiero debole (Rovatti & Vattimo 1986), e Aldo G. Gargani, che, dopo aver pubblicato Il sapere senza fondamenti (Gargani 1978), curerà l’anno dopo la raccolta di saggi significativamente, anche se un po’ ambiguamente, intitolata La crisi della ragione (Gargani 1979). Ovviamente, la storia filosofica di Gargani era molto diversa da quella di Vattimo, così come lo era, rispetto ad entrambi, quella di Rorty. Nondimeno, Rorty apparve sia a Vattimo che, ancor di più, a Gargani16 un prezioso e, forse, inaspettato alleato nell’impresa di dare un nuovo indirizzo alla filosofia come allora intesa e praticata in Italia (e non solo).
- 17 Ricordo che Gargani ha scritto la prefazione/introduzione di Rorty 1989, Rorty 1993, Rorty 1994a, R (...)
- 18 Sulla nozione di “post-Filosofia” vedi Calcaterra (2016: 43-50).
62. Quello che vorrei domandarmi in questo breve articolo è quale sia l’immagine di Rorty che, soprattutto con le sue prefazioni o introduzioni,17 Gargani ha voluto trasmettere al lettore italiano e che cosa egli riteneva che la filosofia italiana, così come si configurava negli ultimi due decenni del novecento, potesse imparare da Rorty e dal suo modo di prendere le distanze dalla Filosofia, ossia la filosofia “sistematica e fondante” (Marconi & Vattimo 1986: vii) con la effe enfaticamente maiuscola, a favore non di una qualche anti-filosofia, ma, piuttosto, di una “post-Filosofia,”18 di una filosofia con la effe sobriamente minuscola che, sapendosi “una voce,” una delle tante voci, “nella conversazione del genere umano,” si prefiggesse come suo “scopo essenziale […] il mantenimento della conversazione, piuttosto che la scoperta della verità oggettiva” (Rorty 1986: 290).
- 19 Rorty qui si richiama, in particolare, a Wittgenstein, Heidegger e Dewey, osservando che ciò in cui (...)
7Un buon punto di partenza può essere quello di considerare il modo in cui Gargani, ricorrendo alle diverse formulazioni di cui sono ricchi i saggi di Rorty, caratterizza quello che è l’obiettivo più esplicito di Rorty: abbandonare o accantonare la filosofia “come è stata intesa a partire da Kant” (ibid.: 11), ossia quella filosofia che si vuole “fondativa,” “sistematica” e “costruttiva,” cartesianamente capace di “rispondere allo scettico epistemologico” e basata su una “nozione di conoscenza come rappresentazione accurata” (ibid.: 9).19
8La prima cosa che colpisce il lettore, e che doveva risultare abbastanza evidente a chi in Italia in quegli anni, avesse letto, prima di Rorty, Gargani, è la forte sintonia che lega, almeno per quanto riguarda la parte, diciamo così, critico-negativa, il filosofo italiano a quello americano. Ciò diventa ancora più lampante se si paragona Philosophy and the Mirror of Nature di Rorty, uscito nel 1979, a Il sapere senza fondamenti di Gargani, uscito l’anno prima. In effetti, quello che, secondo Gargani, è l’obiettivo perseguito da Rorty, almeno dal testo del 1979 in avanti, non sembra molto diverso da quello che egli si prefigge nel suo Il sapere senza fondamenti. Insomma, quello che scrive di Rorty, ossia che egli vuole affrancare l’“analisi filosofica contemporanea […] dalla superstizione o dall’isteria accademica di fondamenti logico-metafisici permanenti, astorici, sottratti, come dire, alle intemperie dello spazio e del tempo” (Gargani 1994: viii), Gargani lo avrebbe potuto scrivere, senza significative modifiche o aggiunte, anche di se stesso e del progetto filosofico intrapreso a partire dalla metà degli anni settanta. Basti ricordare, a questo riguardo, quei passaggi della Prefazione a Il sapere senza fondamenti in cui Gargani esplicita il duplice obiettivo del suo lavoro. Da una parte, come egli scrive con impliciti richiami (“abiti decisionali,” “abiti della condotta”) al pragmatismo, ciò che egli si propone di mostrare è (a) che “[l]e dottrine scientifiche e filosofiche hanno tratto il movimento della loro origine non da atteggiamenti di tipo esclusivamente cognitivo, ma anche dalla matrice costruttiva delle procedure e degli abiti decisionali che hanno disciplinato, nelle loro varie forme, la vita degli uomini” (Gargani 1978: vii); dall’altra, egli vuole indurci a riconoscere (b) che, “messe a confronto con le loro matrici costruttive, con gli abiti della condotta, con le procedure decisionali e operative, le istituzioni della scienza e della filosofia perdono il loro statuto di irrevocabilità e di inesorabilità,” rivelando così quanto “illusorie e fallaci” siano “le strategie epistemologiche di tipo fondazionale che sono andate e vanno tuttora alla caccia di certezze e sicurezze teoriche (ibid.: viii).
9In realtà, a scorrere l’indice dei nomi di Il sapere senza fondamenti non si trova nessuno dei riferimenti che forse, dalla prospettiva odierna, ci si poteva aspettare. Non è citato Rorty, ma non è citato nemmeno Thomas Kuhn, lo storico e filosofo della scienza così importante per Rorty; né si trova traccia degli esponenti classici del pragmatismo americano (Charles S. Peirce, William James, John Dewey) o di quei filosofi analitici (o post-analitici) che ricorrono con insistenza nelle pagine di Rorty: Wilfrid Sellars, Willard V. O. Quine, Donald Davidson. Della triade Wittgenstein, Heidegger e Dewey, i “tre filosofi più importanti del nostro secolo” (Rorty 1986: 9), solo Wittgenstein compare a più riprese in Il sapere senza fondamenti. Ma, com’è ovvio, Wittgenstein non è semplicemente citato, essendo egli il vero ispiratore e nume tutelare di queste pagine, al punto che certi passaggi, come il seguente, suonano quasi come dei commenti a Wittgenstein: “Le certezze e le garanzie ricercate dalle dottrine fondazionaliste non si possono incontrare, non già perché saremmo sprovvisti di fondamenti teorici basici e rocciosi, ma in quanto la stessa matrice costruttiva e operativa della scienza è, in ultima analisi, senza fondamento. […] [A]lla fine di ogni ricerca si arriva al punto in cui si deve dire. Facciamo così e basta.” (Gargani 1978: viii).
- 20 In questo senso, essa è “[p]iù vicina […] alla psicoanalisi che non all’epistemologia logicizzante (...)
10In ogni caso, leggendo quello che Gargani scrive su Rorty è difficile evitare l’impressione che, parlando di Rorty, egli ci parli anche di se stesso: ciò vale, per esempio, quando ci ricorda che “[q]uello contro cui si batte Rorty è in sostanza il filosofo idealizzato, portatore di visioni totalizzanti e permanenti della realtà” (Gargani 1994: xi) e, soprattutto, quando precisa che “la figura umana disegnata da Rorty non è quella di un soggetto portatore di razionalità nei termini di principi apriorici-atemporali e di procedure di legittimazione canoniche e normalizzate. Non è quella cioè della tradizione instaurata da Descartes, Locke e Kant sino a Husserl, ma è quella di un essere umano che è un intreccio di desideri e di credenze” (ibid.: ix), di “emozioni” (ibid.: x) e di “intenzioni” (ibid.: xv).20
- 21 Peraltro, gli autori dei saggi raccolti nel volume (oltre a Gargani, C. Ginzburg, G. Lepschy, F. Or (...)
- 22 È qui evidente il richiamo alle annotazioni di Wittgenstein pubblicate con il titolo On Certainty ( (...)
11Del resto, come non è difficile constatare, queste sono, più o meno, le idee che stanno alla base di La crisi della ragione, una raccolta di saggi curata da Gargani, che porta come significativo sottotitolo Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, e che uscirà nel 1979 suscitando, negli anni immediatamente successivi, dibattiti e polemiche e guadagnandosi anche, in alcuni casi, l’accusa di irrazionalismo.21 Una accusa, a dir poco, ingiusta, se si considera che quella ragione di cui nel titolo si dichiarava la crisi era, per Gargani, un mito o un feticcio della filosofia, in particolare di quella filosofia cartesiana e post-cartesiana che aveva coltivato la pretesa, del tutto illusoria, di fare dell’uomo (e del filosofo) “il soggetto portatore di una razionalità universale” (Gargani 1994: xv). Per questo, anche della raccolta del 1979 si potrebbe dire quello che Gargani afferma del libro del 1978, ossia che uno dei suoi scopi principali è di farci riconoscere che “[u]na prassi infondata non deve essere qui intesa come un sintomo di irrazionalità o come un elogio del disordine” (Gargani 1978: viii).22
- 23 O dicendo di seguirlo. Se tutto quello che Rorty fa dire a Davidson sarebbe stato effettivamente co (...)
- 24 Qui idealista è chi sostiene che le cose (“gli alberi, le rocce, i mari, i continenti, le stelle, l (...)
- 25 Per questo realista le cose “esistono per se stesse” e si tratta solo di scoprirle (Gargani 1994: x (...)
123. Non deve, allora, stupire che, contro questo mito della ragione, Gargani mostri di concordare con l’antropologia “naturalizzata” di Rorty (Gargani 1994: xv), ossia con una antropologia che guarda all’uomo come a una “creatura naturalizzata che reagisce, attraverso il filtro delle sue credenze e dei suoi desideri, agli stimoli, alle perturbazioni, alle ansie che gli provengono dall’ambiente esterno” (ibid.: x). Tra l’altro, è questo approccio “naturalizzato” che consente di sottrarsi all’oscillazione tra realismo e idealismo (umanismo) e di recuperare con ciò la lezione del pragmatismo americano di James e di Dewey. Nei suoi testi introduttivi, Gargani insiste, a ragione, sull’importanza che per l’elaborazione di questa antropologia “naturalizzata” ha avuto Davidson. Seguendo Davidson,23 infatti, Rorty può riconoscere (contro l’idealismo)24 che l’ambiente o il mondo esterno modifica gli uomini, esercitando un’azione causale su di essi (vedi Gargani 1994: xv), ma può anche affermare (contro il realismo o un certo tipo di realismo delle cose “in sé”)25 che “queste cause […] non contengono il significato dell’effetto, che viene invece elaborato dal soggetto il quale, ritessendo le proprie credenze che sono abitudini all’azione, produce [sulla base delle sue intenzioni e desideri e di un particolare sfondo culturale] una reazione adatta all’ambiente” (ibid.: xv). Da questo punto di vista, il “causalismo” di Rorty (e di Davidson), proprio perché riconosce che un organismo non “recepisce l’effetto di una causa passivamente, […] ma […] elabora una risposta” è del tutto differente dal “causalismo naturalistico della tradizione positivista” (ibid.: xvi); allo stesso tempo, un “causalismo” così inteso ci mette al riparo dalla tentazione idealistica. Infatti, la realtà non è né per Davidson né per Rorty, ma nemmeno per Gargani, “plasmata dall’uomo.” In questo senso, afferma Gargani, Rorty “è un pragmatista più che un umanista” (ibid.: x). E lo stesso, si potrebbe dire, vale per Gargani, almeno per quanto riguarda il punto in questione.
- 26 Da questo punto di vista, l’importanza della svolta linguistica per la filosofia è che, favorendo “ (...)
- 27 “Per Rorty, l’uomo interagisce con le cose e le persone, piuttosto che raffigurarsele.” (Gargani 19 (...)
13Non va qui nemmeno dimenticato, come peraltro Gargani si affretta a sottolineare, che questo “causalismo” costituisce un’ulteriore tappa nella battaglia condotta da Rorty contro il “rappresentazionalismo,” ossia contro l’idea che entrare in rapporto con il mondo significhi rappresentarselo. Per questa concezione, insomma, tra il soggetto e il mondo vi è sempre un “medium di rappresentazione” (Rorty 1994b: 145) o una “interfaccia” (ibid.: 134). Poco importa qui che questa interfaccia sia costituita, come pensava Locke, dalle idee o, come pensano i filosofi della svolta linguistica, dal linguaggio. Infatti, il problema non è quale sia questo medium, ma perché mai dovremmo pensare che occorra un qualche medium o interfaccia.26 Contro il rappresentazionalismo così inteso e nello spirito del pragmatismo, occorre piuttosto riconoscere, come scrive Gargani interpretando Rorty, che “[p]arlare, dire, asserire, domandare, rispondere non sono modi di rappresentare la realtà, di porsi faccia a faccia con il mondo, ma sono essi stessi azioni, modi di spuntarla con l’ambiente, strumenti per far fronte alle perturbazioni, all’alea delle turbolenze che si originano dal mondo esterno” (Gargani 1994: xi).27 Peraltro, va necessariamente precisato che a questa antropologia “naturalizzata” non corrisponde alcuna concezione “riduzionistica” del mondo esterno, come mostrano, e nel modo più evidente, gli esempi con cui Gargani illustra il punto: “Il mondo esterno esercita un’azione causale sugli uomini, i quali non possono fare a meno di avere una coscienza modificata se improvvisamente si apre una porta che fa loro percepire un nuovo scenario, se viene loro mostrato un documento o una fotografia dai quali risulta che il loro migliore amico è un criminale anti-semita, se qualcuno dà un bacio oppure uno schiaffo, se improvvisamente una notte uno sconosciuto emette il suo grido ignoto.” (Ibid.: xv).
- 28 Questa caratterizzazione vale, ovviamente, per la filosofia moderna da Descartes in avanti; ma la s (...)
144. A voler riassumere, possiamo dire che sono almeno tre i tratti o gli aspetti della Filosofia (con la maiuscola) su cui Gargani, in sintonia con Rorty, insiste criticamente. Il primo tratto è costituito da quel modello di razionalità, che ha segnato l’intera tradizione metafisica occidentale, secondo cui la razionalità consiste “nello stato di costrizione sotto regole” (Gargani 1994: xi), “nell’essere costretti da regole” (Gargani 1989: xiv). Come ci ricorda Gargani, è proprio questa concezione “a costituire il bersaglio critico dell’opera di Rorty” (ibid.). A sua volta, questa concezione o modello della razionalità è strettamente collegata al predominio, nella tradizione occidentale, di quella che Rorty chiama “epistemologia” e che si può identificare, usando le parole dagli echi wittgensteiniani di Gargani, con la pretesa “di arrampicarci con la mente là dove nessuna mente umana può installarsi allo scopo di domandarsi, come hanno fatto Platone, Descartes, Locke, Kant, Russell, Kripke, Dummett, B. Williams, T. Nagel, qual è il rapporto fra le nostre rappresentazioni e la realtà effettiva” (Gargani 1994: ix). Per l’epistemologia, insomma, “il mondo esterno,” il mondo “là fuori,” costituisce “l’oggetto di rappresentazioni” che sono “prodotte nel foro interno del soggetto conoscente” (Gargani 1989: xiv).28 Secondo questa prospettiva, si può anche dire, le teorie “sono specchi delle cose come esse sono in sé,” e non “espressioni delle modalità alternative di trarre inferenze che si confrontano tra loro” (Gargani 2003: xix). Ciò significa che non siamo noi, con i nostri vocabolari, che facciamo parlare le cose, ma sono le cose che parlano, per così dire, da sole (vedi Gargani 2003: xix). Il terzo tratto, emerso soprattutto con Kant, ma ancora operante nella filosofia contemporanea, anche in quella analitica, è costituito dall’idea che la posizione della filosofia sia quella “di giudice delle altre aree della cultura, sulla base della sua speciale conoscenza dei ‘fondamenti’ di queste aree” (Rorty 1986: 11).
- 29 Si ricordi che queste parole sono scritte alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso.
- 30 Con “edificazione” e “filosofia edificante” Rorty indica il “progetto per la scoperta di maniere di (...)
15Ovviamente, a questo modo di intendere la tradizione metafisica “platonizzante” (Gargani 1994: ix) dell’Occidente andrebbe dedicato molto spazio, iniziando probabilmente dalla domanda se si sia mai dato o sia mai esistito qualcosa di simile. Qui mi limito ad alcune osservazioni conclusive suggerite dai testi introduttivi di Gargani. Come abbiamo visto, Gargani si domanda più di una volta, con Rorty, come ci si possa affrancare “dalla superstizione di […] fondamenti logico-metafisici permanenti, astorici” (Gargani 1994: viii). C’è tuttavia un passo in cui egli sembra suggerire che di questi “fondamenti logico-metafisici” ce ne siamo già, volenti o nolenti, liberati, se è vero, come egli scrive, che “[s]tiamo vivendo un’epoca filosofica29 che ci intriga proprio per la varietà dei vocabolari che vi sono in gioco” e che “[s]iamo immersi in uno scenario culturale che è incendiato da segni, indicazioni, messaggi e prospettive che non possiamo, e forse non vogliamo assestare entro la griglia teorica di una sintesi definitiva e conclusiva” (Gargani 1989: ix). Sembra quasi che quella che Gargani chiama la “utopia postmetafisica e liberale di Rorty,” la quale “pone l’accento sulla varietà dei vocabolari e delle narrazioni30 con cui gli uomini possono dar senso al mondo che li circonda” (Gargani 2003: xviii), sia già, per così dire, la “realtà” della nostra epoca.
- 31 Su questo punto si veda, però, la critica rivolta a Rorty da Hilary Putnam (1992: 39-46).
- 32 Questa “sdivinizzazione della verità” (Gargani 2003: vii) è parte di quello che Gargani descrive co (...)
- 33 L’uso cautelare di “vero” equivale all’avvertenza “che la giustificazione è relativa a un uditorio (...)
16Di solito il problema che questa “utopia” pone agli interpreti è se questo porre l’accento sulla varietà imprevedibile o incalcolabile, nel senso di “non regolata da […] ‘algoritmi’ o ‘programmi’” (Putnam 1992: 40), dei vocabolari non equivalga a negare la validità della “funzione razionale e argomentativa” (Gargani 2003: xviii). La risposta di Gargani è che non è così; quella funzione “mantiene la sua validità ovviamente in quanto controllo della coerenza delle inferenze nell’ambito e all’interno di un certo definito sistema sociale e linguistico,” ossia nell’ambito di quello che, seguendo Kuhn, possiamo chiamare “discorso normale” (ibid.).31 Le stesse considerazioni possono valere, del resto, per la nozione di verità. Certo, il ruolo che la nozione di verità ha avuto nella cultura umana appare a Rorty “sovraestimato e perfino ossessivo” (Gargani 2003: vii). Infatti, secondo Rorty, almeno per come lo interpreta Gargani, “la verità non rispecchia l’oggettività del mondo come esso è in sé, ma è l’espressione storica del consenso condiviso dalla comunità linguistica dei parlanti” (ibid.: ix).32 Non per questo, se ne deve concludere che la parola “vero” non ha alcun uso. Per esempio, essa ha un uso “cautelare” che è quello che troviamo in espressioni come “pienamente giustificato ma forse non vero” (Rorty 2003: 23).33
- 34 Scrive Gargani (1987: 7): “Vero è un termine primitivo, che indica il riconoscimento dell’incontro (...)
17Vi è tuttavia una questione diversa che quanto appena detto solleva. Viene, infatti, da domandarsi se alla filosofia edificante di Rorty non si possano rivolgere le stesse obiezioni che Gargani altrove rivolge a quelle che chiama “le culture dei paradigmi, delle versioni del mondo, degli schemi concettuali” (Gargani 1987: 5). Una volta criticata, con Rorty, l’idea che la verità consista “nel combaciare di una rappresentazione con qualcosa, con un dato” o nell’“adeguamento di un’immagine o di una rappresentazione a qualcosa” (ibid.: 7), non resta, infatti, ancora da domandarsi quale sia la necessità e la verità34 di quello che diciamo e scriviamo? Come osserva ancora Gargani, “[è] controintuitivo impegnarsi su qualcosa il cui significato è in linea di principio esperito come qualcosa di non diverso dall’aggiungere un’ulteriore versione del mondo [un ulteriore vocabolario] alla collezione di quelle già esistenti. Sembra che si renda necessario un effetto di attrito, un ritorno sul terreno dell’attrito per fare proprio tutte quelle cose che i filosofi chiamano versioni del mondo, paradigmi di visioni o schemi concettuali” (ibid.: 6), ma anche, forse, vocabolari.
- 35 “Anche l’interpretazione della verità nel senso di ‘ciò che è buono o utile da credere,’ di quello (...)
18Ma dove cercare questo attrito? Una risposta Gargani non sembra aspettarsela né da Rorty né dal pragmatismo. A un certo punto, egli sembra addirittura riporre le sue speranze in Heidegger, ma non in quello di Essere e tempo, apprezzato da Rorty, ma nello Heidegger di quella ontologia dell’essere che Rorty, da parte sua, respinge “quale nuova imposizione di un sovrano essere metafisico” (Gargani 1993a: 171). Secondo Gargani, però, Rorty respinge l’ontologia di Heidegger senza vedere che questa ontologia, che considera “il linguaggio come un essere che è punto di applicazione dell’ascolto e dell’interrogazione, è la condizione che consente di revocare [in maniera più radicale di quanto non abbia saputo fare la tradizione pragmatista da James fino a Rorty incluso]35 verità e significato come corrispondenza,” nel senso di “corrispondenza a una qualche realtà già data e prestabilita” (ibid.). Nell’ontologia di Heidegger, infatti, la parola “si inaugura non come un atto di enunciazione di un messaggio o di un contenuto prestabilito o da lungo tempo preparato, bensì come parola che emerge […] dal vuoto nel quale è perennemente coinvolta” (ibid.: 172). Qui non è possibile valutare il senso e tutta la portata di questo richiamo a Heidegger e alla ontologia dell’essere che irrompe, per così dire, nelle pagine di Gargani e che resta, almeno in parte, allo stato grezzo. Basti ricordare che, nonostante tutto, questo “impiego” della ontologia heideggeriana è ancora, per Gargani, un modo per continuare il suo confronto con Rorty.