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la società italiana / Protesta senza movimenti?

Centri sociali: occupazioni autogestite a Napoli negli anni novanta

Nicholas Dines
p. 90-111

Testo integrale

1Questo articolo prende in esame le esperienze di tre centri sociali a Napoli (Officina 99, lo Ska, e il damm - Diego Armando Maradona Montesanto), sulla base di interviste in profondità condotte tra persone impegnate attualmente o in passato nelle occupazioni. Presento dapprima alcune delle caratteristiche comunemente attribuite ai centri sociali, sostenendo tuttavia che definizioni generiche non sono in grado di cogliere la natura frammentata del fenomeno. Ripercorrendo le vicende degli ultimi vent’anni dimostro che i centri sociali hanno rappresentato sin dall’inizio una realtà sfaccettata, e che le trasformazioni sociali recenti ne hanno ulteriormente accentuato l’eterogeneità. La mia ipotesi è che la specificità dei centri sociali si comprenda al meglio guardando alla relazione tra occupazioni e ambiente urbano. Nel caso napoletano, i singoli centri differiscono l’uno dall’altro per la loro specifica collocazione territoriale, ma è il modo in cui gli occupanti percepiscono la città come spazio sociale, politico e culturale a caratterizzarne lo stile di azione collettiva.

Un fenomeno composito

2I centri sociali sono spazi urbani – generalmente fabbriche dismesse o proprietà dello stato abbandonate – occupati da gruppi prevalentemente di giovani che li riutilizzano per attività politiche, sociali e/o culturali. I centri sociali si caratterizzano per essere organizzazioni collettive autonome. La specifica linea del centro è definita attraverso assemblee autogestite – regolarmente tenute dagli occupanti, solitamente con ricorrenza settimanale – in cui vengono discussi temi di carattere teorico, progettate le attività interne ed esterne al centro e studiati i metodi di autofinanziamento. Sebbene sia possibile trovare esempi di occupazioni autogestite già negli anni settanta, durante gli anni novanta i centri sociali hanno continuato a essere presenti in molte città italiane e allo stesso tempo si sono distinti come importanti risorse per mobilitazioni politiche – recentemente nelle proteste contro la guerra in Jugoslavia – e come spazi per la promozione e produzione di forme e modelli culturali alternativi.

  • 1 Roma, il giornale napoletano simpatizzante del Polo, ha condotto successivamente all’omicidio di Ma (...)

3Bisogna riconoscere che questo è un modo piuttosto rudimentale di connotare quella che è sostanzialmente un’etichetta descrittiva. Dalla sua origine durante gli anni settanta come spazio di aggregazione, spesso in periferie urbane, con il termine centro sociale ci si riferisce simultaneamente all’occupazione di un edificio (che può variare nel tempo, come nel caso del Leoncavallo di Milano costretto a cambiare più volte sede), un gruppo di occupanti, l’assemblea di occupanti e fruitori, una particolare prassi o identità antagonista. Il termine «centro sociale» è ormai diventato una sorta di paradigma di senso comune che riassume una variegata gamma di esperienze, e che chiaramente asseconda la tendenza dei media a generalizzazioni disinformate – dal «covo dei terroristi» delle testate di destra alla «Generazione X» tanto cara ai redattori delle pagine culturali de «la Repubblica»1.

4Tuttavia, fin dalla loro origine, i centri sociali si sono distinti come un fenomeno complesso e contraddittorio, che sfida ogni tipo di definizione univoca. Essi differiscono infatti nei loro orientamenti (libertari, neo-leninisti, post-autonomi, non ideologici), nelle loro relazioni con le istituzioni (ostili, pragmatiche, strategiche), nei loro scopi (culturali, politici, sociali); e così via. «Occupazione» e «autogestione» come metodi e come salvaguardia dell’autonomia rimangono comuni denominatori, ma anche le pratiche implicazioni di queste ultime sono discutibili. Ancora, «centro sociale» è una categoria che varia nel tempo e nello spazio. La storia dei centri sociali può essere divisa in una serie di fasi. La geografia dei centri rispecchia insieme a stimoli nazionali e universali una varietà di fattori locali determinanti (come le tradizioni politiche). Di fatto, dovuto alla presenza di importanti esempi storici, la maggior parte della letteratura disponibile, così come l’interesse dei media, si concentra sui centri sociali milanesi e, con un livello di interesse minore, su quelli romani. Il Leoncavallo, occupato per la prima volta nel 1975, è considerato da molti l’archetipo del centro sociale, ma in realtà riflette la particolare tradizione e agenda milanese.

5Qui utilizzo il termine centro sociale come una conveniente descrizione di esperienze diverse, per indicare sia gli occupanti che il loro metodo di riutilizzazione di spazi urbani. Durante l’analisi mi concentro su come gli occupanti concepiscono l’occupazione e sulla sua relazione con l’ambiente urbano, la storia dello spazio e il legame con le passate tradizioni. Quindi non considero tematiche e discorsi, come le produzioni culturali o le relazioni con le nuove professionalità, che a Napoli hanno ricoperto un minor peso nell’attività dei centri sociali che altrove.

  • 2 Per altri esempi vedi Bonanni (1999) e Acrata 415 (1994).

6L’analisi qui presentata si serve di materiali auto-prodotti (come i volantini) e articoli di giornali, informazioni ricavate da Internet, un esteso periodo di osservazione partecipante (presenza alle assemblee di gestione e attività politiche e culturali) e di interviste in profondità con gli occupanti. Questa ricerca fa parte di uno studio più ampio su spazi contestati e cambiamento urbano a Napoli dopo il terremoto dell’80. Dati i limiti di spazio, riassumerò brevemente la ricerca in corso. Un’analisi dettagliata di alcuni centri sociali selezionati è necessaria in modo da evitare i rischi di generalizzazioni indebite. Il valore del materiale pubblicato sui centri sociali è incoerente. Perciò le fonti più utili sono quelle che trattano singoli centri o si concentrano su dibattiti teorici riguardanti specifiche tendenze (per esempio la rivista «Derive Approdi» è un forum di questo dibattito). I centri sociali tendono ad avere grossa risonanza non solo nei media (in termini sensazionalistici) ma anche tra i protagonisti. Allo stesso tempo c’è una discrepanza tra sofisticati trattati teorici e la realtà. Per esempio, nel suo libro Il cerchio e la saetta, che discute le attività di un centro sociale romano, Andrea Tiddi conclude che «L’autogestione è l’utopia concreta che si colloca negli interstizi e nei varchi aperti nel tessuto metropolitano» (Tiddi, 1997, 76). Un linguaggio di questo tipo ignora tranquillamente la concretezza delle esperienze di autogestione, che hanno altrettanto e forse di più a che fare con compiti quotidiani banali che con il «ribaltamento dei codici urbani egemonici» o con l’organizzazione di rave parties. Similmente, molte delle critiche elaborate da posizioni libertarie o post-situazioniste sono altamente retoriche. «L’autogestione … smettiamo di ingannarci circa questa condizione di «autogestione». Cosa noi distribuiamo a prezzo ragionevole è miseria. È ancora la qualità della vita piuttosto che la quantità; è ancora politica, non ancora vita» (Bui, 1994, 65)2. Mentre alcuni centri sociali possono essere considerati atrofizzati, specialmente in apparenza, oscillanti tra discoteche «alternative» e santuari di slogan politici stantii, queste critiche (spesso avanzate da coloro che hanno, o hanno avuto, un rapporto formativo con i centri sociali più significativo di quello che sono disposti ad ammettere) tendono a trasmettere uno snobismo aristocratico e a vedere nei centri sociali un fenomeno omogeneo. Piuttosto, come sarà evidente dagli esempi napoletani, simili controversie si sviluppano all’interno della sfera dei centri sociali e ne riflettono l’eterogeneità.

7Sarebbe un errore descrivere i centri sociali come un fenomeno degli anni novanta, non solo perché questi centri esistevano già negli anni settanta e ottanta. Coloro che occupano negli anni novanta hanno direttamente o indirettamente assimilato l’esperienza politica e culturale delle precedenti due decadi attraverso una storicizzazione dei passati temi e discorsi o grazie alla partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca (per esempio ex membri dell’Autonomia). Il tumulto della fine degli anni settanta: la crisi dei nuovi gruppi politici e in generale il proselitismo dell’avanguardia, il totale disprezzo delle istituzioni e in particolare del Pci, la personalizzazione della politica, le tattiche aggressive di Autonomia Operaia, sono tutti tratti che si ritrovano nelle esperienze di occupazione degli anni novanta. Gli aspetti irriconciliabili del movimento del 1977 – la coesistenza del «qui e ora» con lo spirito rivoluzionario, l’ironia e il dogmatismo militante, la tensione tra cultura politica e politica della cultura – si riflettono negli attriti e nelle contraddizioni tra e all’interno dei centri sociali. L’occupazione di spazi urbani durante gli anni settanta fu un modo per conciliare le domande di coloro che erano sotto rappresentati o non rappresentabili dalle organizzazioni politiche tradizionali; quella che fu chiamata allora la «seconda società» di giovani emarginati e disoccupati. Queste domande non erano solamente definite da criteri quantitativi come avere un tetto sopra la testa, ma dall’esigenza di socializzare, di organizzare la vita autonomamente e di spingere indipendentemente l’agenda culturale e politica. Durante gli anni ottanta, i centri sociali, che gradualmente aumentavano di numero, si presentarono come avamposto di resistenza contro la repressione dello stato alla cultura movimentista di sinistra e come bastioni di opposizione culturale e sociale contro il rientro di massa nella sfera privata. Alcuni centri organizzarono inoltre aiuto e consulenza per combattere l’aumento della tossicodipendenza. Vi furono anche numerose «incursioni» nella sfera strettamente politica. Per esempio, i centri sociali furono attivamente coinvolti nel movimento pacifista; organizzando agli inizi degli anni ottanta campi antimilitaristi vicino alle basi nato di Comiso, in Sicilia, e dopo, coordinando la campagna di protesta antinucleare a Montalto di Castro, nel Lazio. Gli anni ottanta furono un periodo di incubazione per i centri sociali, durante i quali cominciò a svilupparsi un’identità collettiva generale e vecchi presupposti ideologici furono posti in discussione, mentre correnti come i punk o gli autonomi, potenzialmente in conflitto con l’esperienza dei centri, se ne sentivano invece attratti. Angelo Zaccaria dichiara che durante questo periodo l’ereditata conflittualità dal 1970 iniziò a maturare: «Larga parte di questo travaglio storico e di queste diverse culture politiche, si trasferiranno nell’esperienza dei csa degli anni ottanta, i quali hanno quindi iscritto nel loro codice genetico il fatto di contenere posizioni e tendenze diverse quando non contraddittorie» (Zaccaria, 1997, 218).

8Due avvenimenti tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta risultano cruciali per l’evoluzione dei centri sociali, iniziando ciò che alcuni occupanti hanno chiamato «l’uscita dalla gabbia» (in altre parole un’uscita dalla posizione marginale): lo sfratto e parziale distruzione del Leoncavallo ad opera dell’amministrazione socialista milanese nel 1989 e il movimento degli studenti detto «la Pantera» all’inizio degli anni novanta. Gli avvenimenti attorno al violento sfratto del Leoncavallo e alla sua rioccupazione, seguita da un imponente dimostrazione di circa 3,000 dimostranti per il centro della città, portarono per la prima volta la questione dei centri sociali all’attenzione nazionale. La Pantera, sebbene per certi versi deludente politicamente, mobilitò un grande numero di studenti, stimolò una rivisitazione dei movimenti passati e nuove forme di protesta e comunicazione (esso fu soprannominato il «movimento dei fax»). Inoltre, sulla scia del movimento, furono occupati in tutto il paese numerosi spazi, incluso quello di Officina 99 a Napoli. Fabio Abagnato, coinvolto nella Pantera di Bologna, dichiara: «Tre giorni ininterrottamente discussi per definire la prima mossa. Poi la paura della riuscita delle assemblee verso una parola di un fascino strano e perverso: l’occupazione. Io penso che l’unica parola che può contenere l’esplosività, la partecipazione, il caos, i limiti, l’impotenza, a volte l’inutilizzabilità di questa protesta sia proprio questa: occupazione» (aa.vv., 1990, 10).

9L’inizio degli anni novanta ha visto, si può dire, l’apogeo dei centri sociali, nel momento in cui il potere di attrazione dei partiti politici della sinistra (Pds e Rifondazione) di attirare i giovani (e i meno giovani) era arrivato al minimo. Essi diventarono un melting pot per correnti urbane antagoniste e la base per attività culturali e ricreative che erano o inesistenti o inaccessibili nel resto della città. Gruppi rap come i 99 Posse, costituiti da occupanti, ebbero per un periodo la funzione di «megafoni» (Samos, Officina 99) e aiutarono a diffondere la questione dei centri sociali. Essi girarono i centri sociali di tutto il paese portando con loro le novità delle esperienze maturate nelle rispettive città. Fu fondato un senso di unità nazionale: assemblee nazionali vennero tenute per discutere tattiche politiche e gli occupanti regolarmente attraversavano il paese per partecipare a dimostrazioni di solidarietà con altri centri sociali minacciati di sgombero. Differenze continuarono a essere apparenti, principalmente tra la corrente libertaria e quella comunista nelle riposte ai tentativi di sgombero. Per esempio lo sgombero del Leoncavallo durante il 1993 da parte dell’amministrazione leghista milanese ha portato El Paso, un centro sociale anarchico a Torino, ad accusare il Leoncavallo di acquiescenza: «Il centro sociale che aveva scelto come mezzo per difendersi le molotov nell’89 ora sceglie di difendersi con i tg dei suoi sgomberatori» (El Paso Occupato, 1994, 8).

  • 3 Espressione che si riferisce alle tute, per l’appunto di colore bianco, portate da molti militanti (...)
  • 4 Zaccaria (1997, 225). Queste differenze erano già palesi nelle reazioni ostili raccolte fra molti c (...)

10Più recentemente un’importante divisione si è formata nell’ «area di autonomia» sulla relazione tra i centri sociali e il terzo settore, e più in generale, con le istituzioni. Questa è essenzialmente coincisa con il dibattito circa il ruolo che i centri sociali dovrebbero assumere in risposta alla percezione di un cambiamento epocale nella società. Alcuni dei più grandi e più antichi centri sociali tra cui il Leoncavallo, Corto Circuito a Roma e i centri sociali in Veneto – che l’anno scorso si sono riuniti nel gruppo dei «centri sociali del Nord-est» – hanno proposto un risposta attiva alle trasformazioni nella composizione dell’occupazione e delle classi, che sperimenti forme alternative di azione politica (come le cosiddette «tute bianche»)3 e hanno aperto dialoghi con alcune istituzioni politiche. In una lettera aperta a Rifondazione Comunista nella primavera del 1999 precedentemente alle elezioni Europee, il Leoncavallo ha dichiarato: «Per anni abbiamo contrapposto all’Europa dei padroni un’Europa dei movimenti, la prima è diventata rapidamente una realtà invasiva, la seconda un’ipotesi lontana oggi quanto allora. È ora di trovare luoghi e forme di un racconto possibile, sull’Europa che verrà. È per questo che chiediamo al Partito della Rifondazione Comunista di aprire alla società e a noi in questa, le liste per le elezioni europee di giugno» (centro sociale Leoncavallo, 1999, 43). Altri centri sociali, solitamente di dimensioni più piccole e con un minor potere contrattuale, hanno fortemente contestato tale decisione, affermando che la trasformazione in «imprese sociali» o il flirtare con le istituzioni indeboliscono la capacità dei centri sociali di intervenire nel conflitto politico. Come dice Angelo Zaccaria: «trasformandoli in riserve indiane per giovani disagiati o inquieti, oppure in semplici erogatori a basso costo di servizi… i centri sociali verrebbero così sottratti al terreno dell’anti istituzionalità e dell’azione diretta, dell’autorganizzazione e della partecipazione al conflitto nei territori, nelle scuole e nei luoghi di lavoro»4.

11Questa «area antagonista» e i simpatizzanti della «linea Leon-ca-vallo» continuano a condurre le stesse battaglie come nel caso della campagna per «il reddito di cittadinanza» e le proteste contro la guerra, ma queste sono solitamente condotte separatamente e spesso con forme diverse. Per esempio, durante le proteste per la morte degli immigrati nel canale di Otranto e per il trattamento dei «clandestini» da parte del governo, i centri sociali del Nord-est organizzarono un traghetto simbolico dall’Albania, mentre nello stesso giorno l’ «area antagonista» dimostrava a Roma. Da questo momento, sebbene un senso di interconnessione persista su Internet dove la maggioranza dei centri sociali continua ad usare la stessa mailing list su Isola nella Rete, risulta evidente un aumento delle fratture all’interno del network dei centri sociali. Ancora, rispetto a cinque o dieci anni fa si nota una diminuzione nel numero delle nuove occupazioni e l’euforia della partecipazione di massa dell’inizio degli anni novanta sembra essere diminuita, soprattutto nel momento in cui i centri sociali sembrano consolidare le loro capacità organizzative.

  • 5 Si vedano ad esempio Lodi e Grazioli (1984), che esaminano la formazione dell’identità collettiva n (...)

12Ogni centro sociale è distinto da un particolare percorso di vita che si lega in modo peculiare alle vicende storiche del periodo. Come sottolineato, l’eterogeneità delle esperienze non può essere adeguatamente riassunta tramite una singola definizione teorica, né ridotta a specifiche identità sia per quel che riguarda la soggettività degli occupanti sia per la caratteristica fisica dello spazio occupato. La categoria dei giovani è stata spesso utilizzata per superare la diversità dei centri sociali malgrado l’ambiguità di questo termine come strumento interpretativo. La gioventù è identificata come un particolare passaggio della vita cui vengono associati tratti come la propensione alla trasgressione, la sperimentazione e l’innovazione, il che a sua volta rende comprensibili e in qualche modo legittime forme di azione sociale come l’occupazione di spazi urbani. Tuttavia, le qualità dei giovani non sono mai universali e sono il più delle volte il prodotto dell’immaginazione sociologica. Mentre negli anni settanta e ottanta l’uso di questo termine poteva essere conveniente per indicare le trasformazioni del dopo ’685, un tale approccio ai centri sociali negli anni novanta potrebbe essere inadeguato.

13In primo luogo i centri sociali, come è stato chiarito, non possono essere descritti né come movimenti né come generazioni. In secondo luogo molti occupanti sono adulti, il che suggerisce un’espansione dei confini della gioventù. Le persone intervistate a Napoli erano di età compresa tra la fine dei vent’anni e i trentacinque anni. Infine, cosa più importante, un’enfasi eccessiva sulla gioventù potrebbe occultare il ruolo di fattori sociali formativi come la soggettività politica. Nel caso di Officina 99 a Napoli, il coinvolgimento di soggetti diversi (disoccupati, famiglie senza tetto) rende la questione dei giovani anomala. Sebbene la maggior parte degli occupanti potrebbe descriversi come giovane, questo è considerato contingente rispetto ad altri fattori come la classe e il background culturale e non può essere considerato come costitutivo dell’identità del centro. «Una cosa che abbiamo sempre rivendicato rispetto a Officina è che nei primi anni è stata proprio la capacità di riuscire a mettere insieme soggetti completamente diversi per età, per cultura, per provenienza, per esperienza anche politica che poi per noi ha rappresentato una grossa spinta rispetto al centro sociale, che non è stato soltanto lo spazio e la cultura alternativa per i giovani ma almeno in una fase è riuscita effettivamente a rappresentare uno spazio di ricomposizioni e espressioni di una cultura che era antagonista a più livelli» (Carla, Officina 99).

  • 6 Si vedano Goddard (1997), Pardo (1996) e Signorelli (1996) per alcuni studi antropologici recenti d (...)
  • 7 Vedi Lepore (1995), Lepore e Ceci (1997), Ragone (1997) e Macry (1998) per una critica delle recent (...)

14Un modo più produttivo e aperto di rendere conto dell’eterogeneità dei centri sociali degli anni novanta potrebbe essere quello di esaminare la loro relazione con la città. La città come contesto multidimensionale di queste esperienze (spaziali, temporali, sociali, culturali ecc.) ha attraversato durante gli ultimi vent’anni massicce trasformazioni: per esempio strutturali, in termini di composizione di classe e strutture di occupazione rese evidenti dalla crescita del settore dei servizi; demografiche con l’arrivo dei lavoratori immigrati; morfologiche come conseguenza di concomitanti processi come la deindustrializzazione, la rigenerazione e ridefinizione di determinate aree strategiche e l’abbandono di altre, gentrification e la privatizzazione di spazi urbani. L’occupazione (illegale) di spazi, che è una caratteristica costante di tutti i centri sociali, mette in discussione le nozioni ufficiali di urbanità; ma così fanno anche forme momentanee di trasgressione urbana come il giocare a pallone nelle aree pedonali del centro. Cercando di evitare la reificazione dei centri sociali come semplici spazi cittadini «contestati» e «alternativi», occorre valutare come il centro sociale concepisce il suo ruolo e la sua collocazione nell’ambiente urbano. La città potrebbe essere considerata un mare di conformismo da rifuggire, un contenitore di conflitti politici da sfruttare, o il vincolo inevitabile che condiziona l’attività di qualsiasi attore sociale. È la città vista nel suo complesso, come una parte integrale di una struttura nazionale e internazionale, o percepita attraverso il micro livello dei suoi immediati dintorni? Il caso di Napoli, probabilmente, si presta a questa vaga interpretazione «urbanistica» dei centri sociali. La sua particolarità come la composizione popolare di una larga fascia del centro storico, una diffusa economia informale e illegale, una disoccupazione cronica così come il radicamento della contestazione di spazi urbani nel folclore sotto assiomi quali «l’arte dell’arrangiarsi», hanno fortemente caratterizzato le forme di attività culturale e politica locale6. Sono queste particolarità del contesto urbano riconosciute dai centri sociali locali, e se così, come questi aspetti influenzano il loro ruolo e funzione? Come rispondono i centri sociali locali alle trasformazioni urbane che sono avvenute a Napoli durante gli ultimi dieci anni e che non sono sostanzialmente diverse da quelle osservate altrove: dai grandi progetti di ristrutturazione degli ultimi anni ottanta e dei primi anni novanta bloccati da Tangentopoli alle strategie coordinate di recupero dell’era di Bassolino?7

15Tutti gli attuali centri sociali napoletani sono stati occupati negli anni novanta. Ci fu un piccolo numero di occupazioni di breve durata alla fine degli anni settanta, lascito del movimento del ’77, incluso «Jessica» uno spazio collocato nel cuore del Vomero, quartiere residenziale della classe media (dove oggi c’è un concessionario di automobili), ma nessuno di questi è sopravvissuto agli anni ottanta. La prima esperienza di lunga durata fu «Tien’ A’ Ment», un centro «punk-libertario» nel quartiere Soccavo, nella parte occidentale della città. Dalla sua occupazione nel 1989 al suo sgombero all’inizio del 1996, il centro fu caratterizzato in primo luogo per la sua produzione culturale. Officina 99 è attualmente il più vecchio centro sociale: fin dal primo maggio 1991 occupa un’ex-fabbrica nel quartiere industriale di Gianturco. Negli ultimi quattro anni Officina 99 ha collaborato con lo Ska, occupato l’8 febbraio del 1995, e insieme si considerano parte dell’area antagonista che è critica di quei centri sociali come il Leoncavallo che ha cercato alleanze di lavoro con le istituzioni. «A Napoli i centri sociali Officina 99 e Ska rimangono ancorati ad un orizzonte di trasformazione legato alle lotte e all’incompatibilità con il sistema di cose presenti, e con le sue articolazioni istituzionali. «Individuare i centri sociali come canali di trasmissione delle lotte come luoghi in cui si materializza il conflitto…». Rimane questo il senso del nostro agire!» (ecn centri sociali mailing list, 28-12-98).

16Il damm occupa un edificio di tre piani nel cuore di Montesanto, un quartiere popolare nel centro storico di Napoli, che è stato occupato il 25 Agosto del 1995. Questa palazzina è parte di un complesso più ampio che include un parco e una scala mobile che unisce due livelli del quartiere, entrambi gestiti durante alcuni periodi da gruppi di occupanti. Il damm non è associabile con alcun altro centro sociale in quanto la maggior parte delle sua attività è mediata dalla sua relazione con l’area circostante. Una comparazione formale non sarebbe produttiva. Le rispettive posizioni del damm, da una parte, e Officina e Ska, dall’altra, sono spesso incompatibili ma la tensione è tenuta bassa mantenendo le distanze. Significativamente uno dei rari momenti di interazione è occorso in seguito alla chiusura da parte della polizia di Tien’ A’ Ment nel gennaio 1996, quando le assemblee di solidarietà vennero tenute al damm. Tuttavia gli occupanti del damm specificarono che la loro azione fu esclusivamente quella di ospiti. Essi non intervennero nelle discussioni, e la loro fu un’azione dettata dal desiderio collettivo di proteggere gli spazi in momenti di pericolo, il che generalmente permette di superare le differenze tra organizzazioni.

Officina 99

17Officina 99 divenne famosa a livello nazionale tramite l’azione del gruppo 99 Posse, un gruppo musicale formatosi nel centro; ma tra i centri sociali nazionali e nella stessa Napoli questo centro sociale divenne noto, almeno per i primi anni, per la sua militanza, sia in termini di identità sia per le mobilitazioni che organizzò nella città. L’occupazione nel maggio 1991 cercò di consolidare l’esperienza collettiva della Pantera e allo stesso tempo mirò a espandere l’orizzonte del conflitto. La sua origine, tuttavia, risale alla metà degli anni ottanta quando un gruppo politico nato nell’Università – il Collettivo Comunista Napoletano, che successivamente ricoprì un ruolo centrale nell’occupazione e nella gestione di Officina 99 – occupò uno spazio in Soccavo per sei mesi durante il 1986. Questo gruppo insieme a un comitato di disoccupati partecipò più tardi anche a Tien’ A’ Ment, ma abbandonò presto questa esperienza a causa delle insormontabili differenze con l’orientamento – culturale più che politico – della maggioranza degli occupanti e per dedicare energie alla nascente protesta studentesca. Secondo gli occupanti intervistati, la Pantera fu un catalizzatore: non solo un’esplosione di protesta politica ma anche un modo per generare collaborazioni e un momento di sperimentazione (l’occupazione di un edificio dell’università funzionò come un prototipo di centro sociale di breve durata, durante il quale vennero organizzati concerti e cineforum). Sebbene molti degli occupanti originari fossero studenti, l’occupazione molto rapidamente divenne il punto di riferimento per gruppi organizzati di disoccupati, precari, lavoratori e occupanti di case. L’aggregazione di vari soggetti attorno all’occupazione legittimò l’intenzione di Officina 99 di dirigere battaglie politiche e sociali. «Noi a Napoli non pensammo solo al centro sociale come lo spazio da liberare per fare i concerti oppure per difendere l’identità antagonista ma pensammo uno spazio di composizione dei movimenti di lotta. Per i primi anni, la presenza del Coordinamento Unitario dei Movimenti di Lotta è stata una cosa bellissima, importantissima» (Samos).

18La tradizione militante degli anni settanta venne rievocata attraverso il recupero di slogan e aforismi politici come quello frequentemente usato «Pagherete caro pacherete tutto», e dalla continuità rappresentata dalla vecchia guardia dei militanti in movimenti precedenti (come i disoccupati organizzati). Il Collettivo Comunista Napoletano stesso fu formato nella metà degli anni ottanta dalle ceneri di Autonomia Operaia Napoletana ed è passato attraverso un periodo di «resistenza» e riflessione teorica. I primi volantini enfatizzavano l’eredità di particolari tradizioni e metodi dal passato: «I centri sociali autogestiti sono ormai un’esperienza consolidata da circa vent’anni in tutta Europa e rappresentano una risposta reale e concreta ad una società che ci nega, sempre più, spazi di vivibilità e di socializzazione» (Volantino, maggio 1991; Officina 99, 1993, 4). Officina 99 rifletté una caratteristica vitalità catartica di molti centri sociali dei primi anni novanta: «Dare solidarietà a Officina e a tutte le esperienze di occupazione/autogestione, vuol dire lottare per un’altra Napoli» (volantino, gennaio 1992; Officina 99, 1993, 13).

19Inizialmente molta importanza venne attribuita all’interazione con il quartiere. Sia la natura dello spazio – una fabbrica abbandonata da quindici anni – sia l’area circostante del Gianturco furono inizialmente fattori formativi dell’identità del centro sociale. Gianturco, un quartiere della classe operaia a prevalenza comunista, evocava l’immagine archetipa della de-industrializzazione: un ampio spazio industriale abbandonato e una comunità povera di sevizi in cui la diffusa camorra e tossicodipendenza si giustapponeva a zone isolate di recupero come gli splendenti grattacieli del Centro Direzionale costruiti negli anni ottanta. Il proposto ma alla fine condannato progetto «Neonapoli», lanciato nel dicembre del 1990 dal Ministro del Bilancio e esponente politico locale Cirino Pomicino, aveva destinato l’intera area a ristrutturazione. In seguito alla vendita all’asta degli immobili per soli 600 milioni, nei primi due anni vi furono, da parte delle autorità, tre tentativi di sgombero. Le connotazioni politiche – sfida di fronte alla speculazione – divennero perciò importanti. Inoltre, gli occupanti rivendicarono la «risocializzazione» di un area nella quale «…non esiste alcuna vita sociale, non c’è un cinema, un teatro, un consultorio, un impianto sportivo; dove la sera gli anziani non escono perché hanno paura e i giovani sono costretti a buttarsi nei vagoni della scassatissima metropolitana, per raggiungere la città» (Officina 99, 1993, 1).

20Nel centro fu istituito un doposcuola per i bambini della scuola locale, un consultorio per donne e numerose iniziative, tra cui una serie di murales, furono organizzate nella vicina «piazza dello spaccio». Tuttavia questo lavoro sul quartiere scemò gradualmente dopo i primi anni e oggi il contatto con la popolazione locale si è ridotto al minimo. Fin dall’inizio ci furono una serie di limitazioni. La scelta della posizione fu principalmente simbolica. Gianturco era essenzialmente un quartiere dormitorio costituito da alcuni blocchi residenziali sparsi tra unità industriali. Nei suoi otto anni Officina 99 ha ricevuto un generale supporto dalla popolazione locale ma una ridotta partecipazione attiva. In fin dei conti, territorio di riferimento di Officina 99 non è Gianturco ma la città di Napoli e il suo hinterland. La sua legittimazione dipende dai soggetti che è in grado di mobilitare e non dalla località specifica in cui si trova la sua sede. Il contatto iniziale con il quartiere era stato avviato più per necessità (per superare le potenziali ostilità locali) che per scelta (per rivitalizzare lo spazio e smascherare la contraddizione della ristrutturazione economica).

21«Noi ragionammo molto su questo -– posizione operaia che andava distrutta, quartiere di degrado, Centro Direzionale.. ci piaceva inserirci in queste contraddizioni però noi non ci siamo mai pensati come centro sociale territoriale… specialmente in una città come Napoli che non è come Roma dove ce ne sono dieci [centri sociali], dove il quartiere è veramente un macrocosmo da quasi paese. Noi abbiamo sempre pensato che il centro sociale autogestito a Napoli fosse comunque un’esperienza politica sul territorio a livello cittadino… Il centro sociale di servizio del quartiere, di lotta radicata nel quartiere tranne qualche tentativo, ma molto poco convinto, non l’abbiamo mai fatto» (Samos). Dopo il periodo iniziale, riferimenti al luogo in cui il centro si trova, nei materiali scritti, vengono fatti soltanto quando vi sono minacce di sgombero, o in occasione di eventi come anniversari attraverso i quali venivano rievocate la storia e la memoria del luogo.

22Tuttavia durante la prima metà degli anni novanta, Officina 99 efficacemente sollevò il tema dell’appropriazione collettiva e del riuso dello spazio urbano in una città dove negligenza e speculazione andavano a braccetto. I media locali erano impressionati dalla sua abilità di prevalere in un’area variamente etichettata come «un inferno», «uno dei posti più sfigati della città», «un orribile cimitero industriale» (dai vari articoli di giornale raccolti in un dossier a cura dello stesso centro: Officina 99, 1993). Secondo gli occupanti intervistati, l’esperienza di Officina 99 è stata imitata dalle istituzioni e dalle agenzie del leisure business. L’attuale amministrazione ha posto una grande enfasi sulla riabilitazione degli spazi urbani. Infatti, Vezio de Lucia, assessore all’urbanistica, durante la prima amministrazione Bassolino (1993-1997), ha visitato Officina 99 per presentare le sue proposte per il recupero della periferia orientale che include un centro giovanile che incorpora alcune caratteristiche proprie del centro sociale. «La giunta ha avuto la capacità di far tesoro di certi percorsi che noi avevamo messo in moto e di certi processi di riappropriazione della città che venivano dal basso» (Carla).

Lo Ska (Laboratorio Occupato di Sperimentazione e Kultura Antagonista)

23Lo Ska è stato occupato sulla scia del movimento studentesco del 1994 che protestava contro la proposta di introduzione di un nuovo sistema di tasse universitarie. Come Officina 99, l’occupazione dello Ska è stata un modo per costruire sulle mobilitazioni che erano particolarmente intense a Napoli, se comparate con altre università. Fin dall’inizio lo Ska ha stabilito un rapporto di collaborazione con Officina 99 aprendo le porte ad una serie di soggetti al di fuori dell’ambito studentesco (lavoratori, disoccupati, ecc.). Più recentemente, da quando l’attività quotidiana di Officina 99 nel quartiere Gianturco è scemata, i due centri hanno iniziato a tenere assemblee di gestione comuni, manifesti e poster sono cofirmati e l’affiliazione degli occupanti appare quasi indistinguibile. Tuttavia, la maggiore differenza tra i due centri, fatta eccezione per le dimensioni (lo Ska occupa gli uffici del dipartimento dell’ex facoltà di architettura dell’università di Napoli e usa il vicino dipartimento di architettura come spazio per concerti e attività di autofinanziamento), è che lo Ska è collocato nel cuore della città, vicino ad alcune delle principali attrazioni turistiche (Spaccanapoli, il Monastero di Santa Chiara). La posizione appare dunque strategica: dà allo spazio una maggior visibilità (il centro si trova di fianco ad uno dei più frequentati bar del centro di Napoli) e accresce le possibilità di interazione con i residenti e gli utenti della città. È inoltre simbolica: il centro è collocato su uno degli assi turistici principali ed è circondato dai segni del recente recupero del centro storico (è attualmente in progetto la costruzione di un McDonalds proprio di fronte!). Quindi, mentre Officina 99 nei primi anni novanta fu capace, attraverso la sua collocazione in un quartiere industriale, di smascherare efficacemente la speculazione e le negligenze dell’autorità cittadina, lo Ska ha giocato sulle contraddizioni e sulle conseguenze della nuova politica dell’era Bassolino, in cui il discorso del recupero urbano e di una nuova immagine della città era diventato predominante. Per esempio, gli occupanti sono stati coinvolti nell’organizzazione delle proteste dei locali carrozzieri e autotrasportatori, costretti ad abbandonare i loro tradizionali locali di lavoro in quanto la loro presenza risultò incompatibile con i piani di rivalorizzazione degli aspetti culturali e turistici dell’area stabiliti dall’Amministrazione. Al fine di attirare l’attenzione pubblica sulla condizione di questi lavoratori vennero organizzate numerose manifestazioni e assemblee, sia all’interno dello spazio occupato che all’esterno. La posizione degli occupanti è inequivocabile: «Napoli è di chi ci vive e non dei turisti che ci vengono due settimane all’anno. I prezzi e gli affitti si sono elevati negli ultimi cinque anni a Napoli. C’è stata di fatto un’espulsione progressiva di ceti popolari che abitavano in quel quartiere veramente da secoli» (Sirio).

24Così come Officina 99, lo Ska inizialmente tentò di interagire con le realtà politiche e sociali del quartiere, ma i suoi espliciti obbiettivi politici si sono rivelati un ostacolo per la costruzione di un rapporto quotidiano con i locali e, sebbene vi fossero momenti di collaborazione, il contatto con gli autotrasportatori ecc. rimase episodico. L’attenzione del centro, infatti, si focalizza sulla condizione di alcuni soggetti (soprattutto immigrati e disoccupati) e su tematiche riguardanti sia il territorio di Napoli che internazionali (Chiapas, Ocalan, guerra in Jugoslavia ecc.). Lo scopo di lungo termine dello Ska è quello di fungere «come un palazzo di comunicazione e osservazione sui movimenti» (Raffaele). L’originale bar al piano terra è stato recentemente chiuso perché irrilevante rispetto agli obiettivi degli occupanti e al suo posto è stata aperta una libreria specializzata in letteratura politica, al fine di rivitalizzare il rapporto tra occupanti e frequentatori dello spazio. Il caso dell’ambulatorio medico che durò dal 1996 al 1998 – forse una delle realizzazioni più visibili dello Ska – è indicativo di questa relazione politica con il territorio. Esso combinò un servizio sociale professionale (l’iniziativa mobilitò diciassette «dottori compagni») con diversi scopi politici, come la contestazione dell’inadeguatezza del servizio sanitario e l’esclusione di alcuni gruppi sociali. «La nostra idea non era di fare semplice assistenza perché in questa eravamo sicuramente più deboli della Caritas… Provavamo un modo altro di immaginare il rapporto tra un paziente e un medico, tra un malato e la malattia, tra il farmaco e la patologia e non solo: provavamo quello che completamente rappresentava un intervento politico. L’ambulatorio nel 1996 nasce in piena fase di privatizzazione del sistema sanitario nazionale in Italia. La parola d’ordine dell’ambulatorio era contro la privatizzazione… [e inoltre] la gente che veniva capiva che in questa struttura c’era un appoggio più complessivo… occuparsi non soltanto di ulcere di un senegalese che si trovava su in ambulatorio, ma occuparsi del perché deve lavorare dodici ore al giorno senza permesso di soggiorno per qualche cavolata ad Afragola» (Raffaele).

25L’esperienza dell’ambulatorio terminò a causa del forte impegno richiesto agli occupanti e per la sua incapacità di mantenere gli obbiettivi politici desiderati, gradualmente questo servizio si tramutò in una struttura di assistenza di base. L’esperienza tuttavia, rese possibile il contatto con un grande numero di immigranti, molti dei quali provenivano dall’area intorno alla stazione o da fuori Napoli, e per i quali lo Ska spesso rappresentò l’unica ragione di aggregazione nel centro storico. L’ambulatorio operò in concomitanza con campagne a favore degli immigrati come la mobilitazione coordinata dallo Ska e da un gruppo di extracomunitari per l’assegnazione di 2000 permessi di soggiorno nel 1997. Alcuni di questi immigrati, in maggioranza maschi e provenienti dal Maghreb e dall’Africa occidentale, parteciparono anche per brevi periodi all’organizzazione del centro sociale.

DAMM (Diego Armando Maradona Montesanto)

26La decisione di occupare da parte di Officina e dello Ska fu dovuta al bisogno di consolidare e espandere il terreno dell’azione politica e fu indipendente dallo spazio (questo venne scelto dopo la ricerca di un luogo adeguato). Al contrario, l’occupazione del damm nel 1995 fu inizialmente provocata dal richiamo del luogo in sé – uno spazio pubblico recentemente completato ma successivamente abbandonato – e dalla sua contraddittoria presenza nel quartiere popolare di Montesanto. Questa zona fu un lascito del programma di ricostruzione successivo al terremoto: la palazzina nel punto più alto del parco era stata pensata come palestra, ma non fu mai consegnata al Comune a causa delle numerose irregolarità di costruzione; la camorra locale giocò un ruolo attivo nella conduzione dei lavori («lavoravano e smontavano, lavoravano e smontavano»: Maurizio); il custode sparì perché nessuno pagava il suo stipendio. Lo spazio era divenuto il posto privilegiato dove nascondere motorini rubati, e rifugio frequentato da tossicodipendenti: la sua rivendicazione fu quindi vista come una sfida.

  • 8 Espressione gergale per «melma».

27«Questo parco stava proprio nel mio quartiere, 10.000 metri quadrati incustoditi, due edifici e aiuole, scale lungo una montagna di tufo, a bloccarla, a reggerla, uno spiazzato giù e sopra terrazze con piante, piante. Ci andavo spesso a vedere. Tenevo un laboratorio di Teatro dell’Oppresso ad Officina 99, una volta ci sono stato con i ragazzi, si parlava di occuparlo. Io non ero tipo di starmene con le mani in mano, però di occupazioni non me ne intendevo, sapevo ma non mi ci applicavo. Quella volta fantasticammo, io continuavo a cercare gente, ogni tanto tornavo al Parco con qualche sognatore, poi ci andai con quello giusto. Si chiamava Fiore, eravamo lì all’alba di maggio, dopo una notte passata a girare, vedemmo la luce entrare in questo lago di siringhe e cacate che ci avevano buttato, il Gigante Giallo voleva vivere e ci parlava attraverso quella «lota»8. Fiore decise di farci un film, aveva pellicola «Occupiamo, ci sto!» (Braucci, 1998).

28L’occupazione si sviluppò da una confluenza di esperienze individuali «senza memoria collettiva» (Luca). Alcuni avevano avuto esperienza in Officina 99 ma senza mai condividerne gli aspetti antagonistici dell’organizzazione, altri si erano uniti con proposte per progetti specifici sull’area. Per cui da queste premesse l’occupazione fu concepita con un duplice obbiettivo: un luogo creativo per gli occupanti e un modo per reclamare lo spazio sociale per gli abitanti e i fruitori di Montesanto. Il nome, inizialmente usato da uno degli occupanti come pseudonimo, mirò ad attirare la curiosità dei residenti. Questo fu un centro sociale chiamato in onore del popolare e populista eroe di Napoli della fine degli anni ottanta: un contrasto chiaro con molti centri sociali che o si erano riappropriati della precedente definizione o collocazione dello spazio (Officina 99) oppure avevano costruito acronimi politicamente significativi (lo Ska). Il nome riflette infatti un aspetto del gruppo degli occupanti: un’avversione per il gergo politico (considerato endemico nei centri sociali tradizionali) e, più importante, una speranza di aprire un dialogo con il vicinato. Per esempio uno dei primi volantini iniziava così: «Maradona è tornato a Napoli per giocare insieme con i Napoletani». Il nome intero è tuttavia stato tagliato e oggi entrambi gli occupanti e i residenti si riferiscono allo spazio come damm: «Io mi dimentico pure che ci chiamiamo Diego Armando Maradona» (Luca).

29Contrariamente agli altri centri c’è sempre stata una varietà di posizioni riguardo all’occupazione e alla gestione dello spazio e alla questione legalità-illegalità, ecc. Un occupante dichiara che il damm solo molto lontanamente è associabile alla corrente «anarcoide» che si distingue dai centri sociali del Nord-est e gli «autonomi» di Officina 99: «non riesci a definirli, non hanno rapporti strutturali con le istituzioni. Ci sono dei rapporti con le istituzioni in casi di necessità e non c’è un’identità definita perché ci sono molte identità. Ha una linea vaga: si fa politica, si lavora sul territorio» (Luca). Un altro intervistato, discutendo dell’ethos del termine centro sociale, dichiara di preferire a esso il più malleabile termine di «zone multiple» (Maurizio). Vi è, invece, un consenso generale sulla grande enfasi data al quotidiano, il significato pratico e locale di occupazione: «siamo uno spazio occupato all’interno di un quartiere popolare che su questo quartiere sta lavorando, affrontandone le contraddizioni e le esigenze reali, distinguendo tra richieste dell’uomo e richieste del consumatore, abbracciando le prime e disdegnando le seconde» (volantino, gennaio 1996).

30La composizione sociale di Montesanto – in particolare la cultura e l’egemonia sociale del «sottoproletariato» – ha influenzato profondamente l’evoluzione e l’identità del damm. A parte il successo del doposcuola attivato per i bambini delle elementari, finalizzato ad aumentare l’uso giornaliero del parco, gli occupanti hanno coinvolto altri bambini (adolescenti) nella gestione dello spazio e in attività come la registrazione di film. Il damm ha dovuto fronteggiare continui problemi: furti regolari, danneggiamento di strutture e attrezzature, interruzione di attività per bambini, così come lamentele da parte del vicinato sul livello del rumore durante gli eventi all’aria aperta. La forma di povertà, considerata specifica di Napoli e del Sud, è concepita in termini pasoliniani come fonte di autenticità, non è considerata una fonte di conflitti politici, ma una ispirazione di impegno sociale. «Un’esperienza tipo damm verrebbe fatta a Messina, Palermo. Dove c’è la povertà – quella è la differenza. È vero che comprano queste macchinone e questi stereo però sono persone povere sia culturalmente sia economicamente. Non ci illudiamo che si cambino le cose però sappiamo che su dieci persone una mette sul suo percorso questa cosa e ne tiene conto» (Maurizio).

31Nei suoi manifestini, il damm dichiara di promuovere la «non violenza» come risposta ai problemi sociali del quartiere, mentre allo stesso tempo denuncia le attitudini della classe media «razzista» verso i cosiddetti «scugnizzi». La pulizia, riutilizzo e restituzione dello spazio pubblico al quartiere è stata importante per la credibilità del damm sul territorio. La scala mobile è stata regolarmente utilizzata come luogo per concerti e rappresentazioni teatrali sia prima che dopo la sua inaugurazione nell’agosto del 1997 da parte del sindaco Bassolino. Subito dopo l’occupazione del 1995 il parco fu immediatamente pulito dalle siringhe e l’estate seguente il damm chiese l’aiuto di un gruppo internazionale di volontari che passarono una settimana pulendo il giardino. A causa del limitato numero di occupanti fissi (in media non più di dieci) l’intenzione non è mai stata quella di occupare queste strutture, ma piuttosto attirare l’attenzione sulle loro condizioni. La continua trascuratezza per il parco e la scala mobile ha dato al damm numerosi occasioni di confronto-negoziazione diretta con il Comune. Per esempio, conseguentemente alla chiusura della scala mobile nel 1998, il damm coordinò il comitato di quartiere che domandò un miglioramento del servizio. Attraverso i suoi interventi, il damm è stato capace di costruire un grado di consenso politico con il vicinato, giocando sull’assenza dell’amministrazione Bassolino che individua tra le sue priorità la tutela del verde e la ristrutturazione della città: «L’amministrazione ha la scusa del degrado per non intervenire, per non far funzionare le cose. Alla scala mobile dire che c’è degrado è come dare la colpa al quartiere. È un gioco sporco» (Luca). Al damm sono state anche organizzate altre attività politiche e dibattiti – come nel caso del coordinamento delle proteste in conseguenza degli attacchi ai campi nomadi nel quartiere di Scampia nella periferia settentrionale di Napoli – ma queste non hanno ridotto lo spazio e l’impegno per le altre attività: piuttosto queste vengono condotte parallelamente o perseguite autonomamente.

Conclusioni

32Questa, in sintesi, l’esperienza di tre centri sociali a Napoli. Alcuni aspetti dei centri sociali – come un certo discorso culturale sull’autoproduzione o il rifiuto del copyright, o l’uso di nuove tecnologie – sono meno predominanti qui che in altre città italiane. Tuttavia la situazione di Napoli evidenzia i problemi associati con la definizione di «centro sociale», che peraltro ho continuato ad utilizzare in questo articolo. Per coloro che occupano Officina 99 e lo Ska, il centro sociale va oltre l’identità politica collettiva degli occupanti, senza precostituire la loro posizione politica. Piuttosto l’occupazione è considerata un modo pratico per amalgamare e coordinare energie collettive e intervenire nel conflitto politico. «Il centro sociale non può essere il partito o il sindacato. Chi l’ha pensato e mi sa c’è ancora qualcuno che lo pensa, secondo me, sbaglia. Non è neanche la sede del collettivo della sinistra extraparlamentare… «centro sociale» non è una categoria astratta che sta nel cielo con la politica; noi non l’abbiamo mai pensato così. È qualcosa che è nato all’interno di un radicamento sociale, storico e politico». (Samos, Officina 99); «Ognuno ha un’opinione personale di cosa possa significare il centro sociale… nel momento in cui tu puoi dare un’apparenza di omogeneità, perde ogni significato sostanziale» (Sirio, lo Ska). Per gli occupanti del damm la concezione di centro sociale come base per organizzare confronti politici è antitetica con il loro scopo di interagire con il vicinato. Il termine è immediatamente associato con Officina 99 ed è respinto come dogmatico e inappropriato «Con noi non c’entrava proprio niente se non retoricamente. È chiaro: se tu devi spiegare a uno che chiede “ma che cosa è quello?” rispondi “un centro sociale occupato’’» (Maurizio, damm). In altre parole «centro sociale» è un vago termine che tuttavia serve per descrivere un gruppo di diverse, ma apparentemente simili, esperienze. Durante la fase di particolare eccitazione dei primi anni novanta il termine fu considerato meno ambiguo e venne vigorosamente difeso: «la difesa dei centri sociali è la difesa degli ultimi spazi di libertà» (Carla, Officina 99; riportato dalla Repubblica del 13/10/93 alla vigilia dell’assemblea nazionali dei centri sociali tenuta ad Officina 99).

33Ogni centro sociale è individualmente collegato alla storia che gli ha dato origine negli anni settanta. Il legame con il passato può essere diretto, come nel caso di Officina 99 o lo Ska che hanno avuto una relazione fondamentale con Autonomia e con i movimenti organizzati, o indiretto, come nel caso del damm, dove gli occupanti riconoscono affinità con gli elementi ludici e ironici del movimento del settantasette e con alcune prassi come l’autoriduzione. I cambiamenti degli ultimi vent’anni e la relazione con il presente – la trasformazione dell’ambiente urbano esterno, la presenza di nuovi soggetti (per esempio gli immigrati), cambiamenti di sistema (per esempio nel mercato del lavoro) – ovviamente impongono ai centri sociali di negoziare le loro priorità. Analogamente, la collocazione geografica può direttamente influenzare l’attività sociale o caratterizzare le percezioni degli occupanti circa la funzione del centro. «A Napoli c’è il 60% di disoccupazione giovanile: una situazione sociale estremamente tesa. Una povertà che colpisce gran parte della popolazione. È evidente che le pratiche politiche e anche la radicalità di certe lotte sono diverse rispetto a un centro sociale del Nord-est dove c’è il reddito più alto d’Italia e dove la disoccupazione praticamente non esiste» (Sirio, lo Ska). Tuttavia la presenza di Officina 99 e del damm nella stessa città prova che non esistono tipi geografici di centri sociali; e questo si riflette in tutto il paese.

34Nel caso napoletano la relazione tra l’identità collettiva e il territorio rappresenta una delle chiavi per interpretare e differenziare il percorso di vita dei centri sociali durante gli anni novanta. Per Officina e lo Ska, il territorio è concepito come uno spazio non confinato all’immediato ambiente esterno, nel quale sono collocati i soggetti e aperte le azioni politiche. I due centri sociali si rappresentano come espressioni e organizzatori di antagonismo politico a Napoli; questa autorappresentazione spaziale è inoltre trasmessa quando essi partecipano a raduni in altre parti del paese. Nel frattempo la realtà del quartiere popolare di Montesanto è un punto centrale di riferimento per il damm, ne condiziona le forme di intervento e risulta in un approccio fortemente pragmatico. Il recupero di due strutture abbandonate nel luogo (il parco e la scala mobile) per l’utilizzo del pubblico, così come l’attività della palazzina rappresentano, nonostante gli innumerevoli ostacoli, altrettanti modi di costruire un rapporto significativo con gli abitanti del posto. Gli occupanti quando cercano di distinguersi da altre occupazioni sottolineano precisamente il rapporto con il quartiere. «Quando si lavora sul territorio si devono affrontare delle contraddizioni… Officina non sarebbe stata la stessa Officina se fosse stata in un quartiere come Montesanto» (Luca, damm). L’occupante difende l’esperienza del damm attraverso il ricorso all particolarità della sua locazione. Tuttavia questo aspetto è accettato da quegli occupanti per i quali il lavoro sul territorio non è centrale: «Quelli del damm hanno puntato su un certo tipo di discorso che secondo me è l’unico possibile all’interno di un quartiere del genere; di porsi come luogo di incontro all’interno del quartiere per il quartiere… Officina 99 all’interno di un quartiere come Montesanto o Sanità non si sarebbe mai sviluppata negli stessi termini». (Carla, Officina 99).

35La relazione con la città non è il solo modo possibile di interpretare i centri sociali. Difatti questa analisi potrebbe applicarsi meglio ad un’esperienza come il damm dove la dimensione urbana è direttamente considerato attraverso l’uso dello spazio, che non a soggetti più direttamente politici come lo Ska o Officina 99. Tuttavia la dimensione urbana è probabilmente l’approccio maggiormente flessibile per osservare questi fenomeni che sono diversi ma che condividono un tratto comune: l’appropriazione e il riutilizzo di spazi. Potrebbe forse essere utile eliminare il termine centro sociale completamente sostituendolo con quello di «occupazioni collettive» o qualche cosa di simile. «Centri sociali» è spesso usato casualmente dagli spettatori e dagli aderenti per implicare una sorta di profilo omogeneo e definito. Tuttavia, probabilmente non vi è un termine equivalente che sia in grado immediatamente di evocare la natura antagonista di queste esperienze. Quindi il termine dovrebbe essere usato con le dovute precauzioni, e le condizioni e circostanze specifiche di ogni centro sociale dovrebbero essere considerate con attenzione. Tramite l’occupazione di spazi abbandonati o vuoti, i centri sociali possono respingere discorsi globali sulla rigenerazione urbana e sulla reinvenzione dell’immagine dello spazio urbano. Tutti gli spazi urbani sono in qualche modo contestati nel loro uso e significato; anche il gioiello del così detto Rinascimento Napoletano, Piazza del Plebiscito, recentemente pedonalizzata in modo da renderla «a misura di turista», è ciononostante contesa da scugnizzi che giocano a pallone, motociclisti abusivi, e disoccupati organizzati che ci fanno le loro manifestazioni. La questione è allora come i centri sociali costruiscano un discorso di conflitto urbano e in che modo gli occupanti si percepiscano come contestatori.

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Lista degli intervistati

Officina 99 – Samos e Carla: ex-membri del Collettivo Comunista Napoletano e occupanti originari di Officina 99 nel 1991; al momento delle interviste (11/8/99) non avevano più responsabilità gestionali dirette nel centro.

Lo Ska – Sirio: uno degli occupanti originari dello Ska nel febbraio del 1995, ancora impegnato attualmente; particolarmente interessato nella mobilitazione politica degli immigrati a Napoli (intervistato il 17/7/99).

Raffaele: uno degli occupanti originari dello Ska nel 1995, ancora attivo; uno dei medici impegnati nell’ambulatorio del centro (intervistato il 28/7/99).

damm – Luca: aderì al damm sei mesi dopo la sua occupazione nell’estate del 1995 e ne è attualmente uno degli animatori; si occupa in particolare della ludoteca e del doposcuola per i bambini delle elementari, nonché della promozione di mobilitazioni politiche in specie intorno al problema dei Rom a Napoli (intervistato l’11 e il 19/7/99).

Maurizio: uno degli occupanti originari, ancora attivo nel damm; impegnato particolarmente nella preparazione ed organizzazione di spettacoli teatrali (intervistato l’1/8/99).

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Note

1 Roma, il giornale napoletano simpatizzante del Polo, ha condotto successivamente all’omicidio di Massimo D’Antona nel Maggio 1999 un’esagitata campagna per la chiusura dei centri sociali locali, additati come terreno di coltura di terroristi. Dal canto suo invece la Repubblica ha spesso interpretato il fenomeno dei centri sociali come una moda generazionale degli anni novanta.

2 Per altri esempi vedi Bonanni (1999) e Acrata 415 (1994).

3 Espressione che si riferisce alle tute, per l’appunto di colore bianco, portate da molti militanti dei centri durante azioni di protesta, più o meno tradizionali, come ad esempio la scalata dei muri dei centri di permanenza temporanea per immigrati. Si presta molta attenzione alla dimensione comunicativa di questo abbigliamento: «Come strumento… è profondamente in sintonia con i meccanismi di questa società, ma ne inverte il segno: progettuale, dinamico, a-identitario, a fortissimo impatto simbolico ed enorme carica comunicativa, rigorosamente autonomo» (Centro Sociale Leoncavallo, 1999, 41).

4 Zaccaria (1997, 225). Queste differenze erano già palesi nelle reazioni ostili raccolte fra molti centri sociali dalla proposta di tenere un convegno ad Arezzo nel 1995 (vedi aa.vv., 1995; csoa Murazzi Po, 1996).

5 Si vedano ad esempio Lodi e Grazioli (1984), che esaminano la formazione dell’identità collettiva nel Centro Sociale Leoncavallo all’inizio degli anni ottanta.

6 Si vedano Goddard (1997), Pardo (1996) e Signorelli (1996) per alcuni studi antropologici recenti della Napoli popolare. Per un approccio di storia orale, si veda Gribaudi (1999).

7 Vedi Lepore (1995), Lepore e Ceci (1997), Ragone (1997) e Macry (1998) per una critica delle recenti trasformazioni politiche e urbane a Napoli. Per un punto di vista interno all’amministrazione Bassolino si vedano invece Becchi (1994), Bassolino (1996) e De Lucia (1998).

8 Espressione gergale per «melma».

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Nicholas Dines, «Centri sociali: occupazioni autogestite a Napoli negli anni novanta»Quaderni di Sociologia, 21 | 1999, 90-111.

Notizia bibliografica digitale

Nicholas Dines, «Centri sociali: occupazioni autogestite a Napoli negli anni novanta»Quaderni di Sociologia [Online], 21 | 1999, online dal 30 novembre 2015, consultato il 28 mars 2024. URL: http://journals.openedition.org/qds/1404; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.1404

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Autore

Nicholas Dines

Department of Italian - University College London

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