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Public Health Literacy

Il punto di...

Public Health Literacy
Michele Grandolfo

Evidence 2015;7(10): e1000121 doi: 10.4470/E1000121

Pubblicato: 8 ottobre 2015

Copyright: © 2015 Grandolfo. Questo è un articolo open-access, distribuito con licenza Creative Commons Attribution, che ne consente l’utilizzo, la distribuzione e la riproduzione su qualsiasi supporto esclusivamente per fini non commerciali, a condizione di riportare sempre autore e citazione originale.

Secondo la definizione di Freedman et al. public health literacy (PHL) è “il livello di competenza delle persone e delle comunità nell’ottenere, gestire, comprendere, valutare le informazioni e trarne conseguenze per l’azione necessaria ad assicurare beneficio alla comunità con decisioni di sanità pubblica” (1). Tale concetto si contrappone alla health literacy (HL), definita dall’Institute of Medicine (IOM) come “il grado in cui le persone hanno capacità di ottenere, gestire e comprendere l’informazione sanitaria di base e i servizi necessari per prendere decisioni appropriate riguardo la salute” in modo da poter meglio aderire ai comandamenti medici. In tale prospettiva non si tiene conto che una competenza a cercare salute (health seeking behaviour) è fortemente condizionata da fattori sociali, rispetto a cui la qualità della comunicazione ha poco a che fare.

Mentre la PHL fa riferimento agli obiettivi di salute e agli indicatori per misurarli, definibili solo a livello di comunità, la HL fa riferimento alle prestazioni aderendo alle quali si presume migliori lo stato di salute. Ma ciò non è dimostrabile a livello individuale perché manca la controprova fattuale, non potendo tornare indietro nel tempo e provare soluzioni alternative.

La PHL incorpora la assunzione di un modello sociale di salute: le cause sociali sono le “cause dietro le cause” e la comunità ne deve essere consapevole ed agire di conseguenza. Essa richiede al sistema sanitario di saper ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali, tanto che indicatori di salute differenti per strato sociale indicano un malfunzionamento del sistema (anche per i più abbienti, non solo per i meno abbienti). Perché la salute, in quanto bene comune, è indivisibile: la salute degli uni dipende da quella di tutti gli altri.

Definizioni di salute
La PHL rappresenta il livello di competenza delle persone e delle comunità nell’autonomo controllo del proprio stato di salute, soprattutto al fine di operare come valido e potente stakeholder nella programmazione del sistema e nella valutazione di qualità, oltre che nell’azione di rimozione o riduzione delle cause sociali a monte della sofferenza e del disagio. Quindi, fa riferimento alla Carta di Ottawa del 1986 (promozione della salute) e al corrispondente concetto di salute come capacità autonoma di controllo sul proprio stato.

La HL fa riferimento alla definizione di salute dell’OMS del 1948 “totale benessere psicofisico e non solo assenza di malattia”. Tale definizione espone tutte le persone (perché nessuno può definirsi in perfette condizioni) all’imbonimento dei sapienti o taumaturghi di turno, spesso con vistosi conflitti di interesse, e alla medicalizzazione di condizioni che patologiche non sono. Il risultato del paternalismo direttivo è l’eccesso di diagnosi e di cure (overdiagnosis e overtreatment). Un esempio per tutti, i valori di colesterolo e pressione la cui soglia viene abbassata così da essere tutti bisognosi di farmaci per abbassarne i livelli. Il tutto sostenuto/favorito/incentivato da un martellante tam tam mediatico che “vende” i favolosi progressi delle biotecnologie e della medicina personalizzata, delle terapie “su misura” e non più a taglia unica. Terapie da costi elevati che raramente mantengono le promesse, ma che fanno clamore.

Obiettivi di salute, accesso alle prestazioni raccomandate e valutazione
Nella prospettiva della PHL le persone e le comunità si preoccupano che gli obiettivi di salute siano raggiunti e che la programmazione e attuazione delle attività di sanità pubblica siano adeguate per raggiungerli, con un effetto niente affatto trascurabile di controllo non fiscale dell’uso delle risorse pubbliche.

Il ricorso alla Evidence-based Medicine (EBM) e alle linee guida elaborate con le procedure consolidate a livello internazionale da comitati di esperti multidisciplinari, compresi rappresentanti delle comunità, privi di conflitti di interesse, rappresenta il punto di partenza per l’elaborazione di strategie operative di sanità pubblica. Le linee guida non sono, quindi, ricette da applicare nella pratica, ma raccomandazioni che devono tenere conto del paziente individuale. La valutazione continua sul campo della qualità con adeguati indicatori di esito (che permettono di valutare se si è raggiunto l’obiettivo di salute), di risultato (che permettono di valutare se gli interventi effettuati sono stati efficaci) e di processo (che permettono di valutare quante persone sono state esposte all’intervento tra quelle per le quali era stato indicato/raccomandato) fornisce elementi per validare i modelli operativi adottati, le necessità di aggiornamento professionale e, soprattutto, per validare i risultati dell’EBM. Questa, infatti, ha il limite della straordinaria ristrettezza di contesto (basti pensare al gold standard dei trial clinici) e ai potenziali difetti metodologici, per non parlare delle alterazioni dovute a volute distorsioni (nei metodi utilizzati, nell’analisi dei risultati e nel livello di generalizzazione degli stessi) in seguito alla follia di affidare la ricerca non ad organismi pubblici indipendenti, costantemente monitorati, ma ai produttori di farmaci e dispositivi biomedicali. Va ribadito in ogni caso che i risultati dell’EBM, sempre affetti da errore campionario, ineliminabile, fanno riferimento a un modello interpretativo dei fenomeni e a paradigmi epistemologici che lo sottendono. Vanno, pertanto, sempre validati nella pratica dei contesti differenti, così da acquisire elementi utili per l’aggiornamento professionale, per la modifica dei modelli e per l’eventuale messa in discussione dei paradigmi epistemologici. Tale processo di valutazione nella pratica contribuisce al miglioramento delle competenze professionali e al progresso della conoscenza.

Nella prospettiva della HL le persone e le comunità si preoccupano della disponibilità delle prestazioni, indipendentemente dalla loro utilità, soprattutto in termini di appropriatezza. La follia di parlare di livelli essenziali di assistenza, piuttosto che di obiettivi di salute valutabili è sostenuta dall’ideologia dell’HL e rappresenta sinteticamente il tradimento della lettera e dello spirito della L.833/78. Nel modello della HL si tratta di stabilire cosa si ritiene utile per migliorare la propria salute e saranno gli esperti a dirlo e la persona dovrà attenersi alle indicazioni e se non lo fa sarà responsabile dei problemi che lo affliggono o lo affliggeranno, fino al punto da non meritare che il servizio pubblico se ne faccia carico.

Strategie per la promozione della salute
Promozione della salute, quindi, come competenza della persona e della comunità nel controllo autonomo dello stato di salute. Ma quali azioni, meglio, quali strategie? Perché se è vero che la salute può essere valutata solo a livello di comunità, si deve parlare in termini di strategie operative in grado di delineare accuratamente obiettivi, indicatori di valutazione, soggetti da coinvolgere, come, quando, dove.

Per la promozione della salute è necessario applicare l’arte socratica della maieutica, favorendo la riflessione e il ripensamento dei vissuti quotidiani e della memoria storica della comunità (ecco perché la medicina non può non essere narrativa) per creare le condizioni affinché si metabolizzino le conoscenze fondate scientificamente, con la consapevolezza degli ineliminabili margini di errore, si modifichino attitudini e si sia disposti al cambiamento, alla luce del peso che ogni persona o comunità assegna alle diverse alternative in gioco. Da cui l’importanza dell’autonomia decisionale.

Per promuovere la PHL è indispensabile partire dall’implementazione di strategie operative di promozione della salute. Se queste sono efficaci nel determinare una maggiore capacità di controllo sul proprio stato, avranno come conseguenza una riduzione dei comportamenti a rischio e, quindi, una minore incidenza o prevalenza degli eventi o delle condizioni conseguenti l’esposizione al rischio. Questo è il primo effetto atteso misurabile con opportuni indicatori di incidenza o prevalenza. Un altro effetto, ben noto a chi opera nei servizi di primary health care, è l’aumentata capacità di cercare salute (health seeking behaviour), non solo per sé ma anche per altre persone legate da relazioni affettive e sociali. Di qui si comprende l’importanza di servizi primari con competenze multidisciplinari in grado di operare valorizzando al massimo le sinergie e le integrazioni. Tali servizi in Italia sono rappresentati dai consultori familiari, nati dall’intuizione e le esperienze geniali del movimento delle donne, configurati secondo il modello raccomandato dal Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) (3). Il terzo effetto importante è la disponibilità da parte della persona e della comunità di farsi parte dirigente per aiutare altre persone e comunità nel percorso della promozione della salute. I gruppi di auto-aiuto che si auto organizzano, con l’assistenza dei consultori familiari, nella fase del puerperio ne sono un esempio eccellente. Sulla base di quest’ultimo effetto si costituiscono le condizioni perché nella comunità si sviluppi la PHL.

Perché strategie? Perché se uno degli effetti è la riduzione del rischio, è necessario avere consapevolezza che questo non è omogeneo nelle stratificazioni sociali (le cause sociali sono le cause dietro le cause) ed è fondamentale conoscere i differenziali del rischio e come è articolato: non coinvolgere le sezioni più a rischio implica una minore riduzione dell’effetto della strategia. Infatti, non c’è corrispondenza tra percentuale di persone coinvolte e percentuale di riduzione di frequenza del problema, se la capacità di coinvolgimento delle persone è inversamente proporzionale al rischio.

Quindi, se il cardine epidemiologico di una strategia di sanità pubblica di promozione della salute è la conoscenza epidemiologica dei differenziali di rischio, il cardine operativo è l’offerta attiva. Ciò deriva dalla semplice constatazione che chi è in condizioni di maggior rischio ha minore capacità di cercare salute, pertanto questa ridotta competenza impone il movimento verso la persona: Maometto va alla montagna e non aspetta che la montagna si muova. Le montagne hanno diverse altitudini ed asperità, sarà compito di chi deve raggiungerle attrezzarsi adeguatamente per superare le difficoltà.

L’aumento della capacità di cercare salute, in seguito a un’efficace azione di promozione, sarà particolarmente prezioso per far emergere altre problematiche soprattutto in fase prodromica, come nel caso di disagio familiare, che non vengono spontaneamente proposte all’attenzione, anche perché se ne può avere vergogna in quanto testimonianti un supposto fallimento dei propri progetti di vita. Da ciò emerge un’altra ragione dell’importanza della presenza di competenze multidisciplinari nei servizi di primary health care per cogliere la dimensione sistemica della salute ed operare efficacemente nella presa in carico, sfruttando le sinergie. L’alternativa di aprire sportelli di ascolto è una insensatezza perché si interagirebbe solo con la punta dell’iceberg, nella migliore delle ipotesi, spesso con rischio di sovra-diagnosi (e conseguente improprio trattamento), comunque con fortissimo rischio di stigmatizzazione.

Ma cosa significa operativamente “offerta”? Perché qualcosa venga accettata la si deve offrire con rispetto, gentilezza, empatia, compassione ed umiltà. Si tratta di competenze professionali e non di semplici opzioni etiche. E cosa significa operativamente il termine “attiva”? Sta a indicare che se il coinvolgimento non viene accettato ci si deve interrogare sulle ragioni del fallimento nella capacità di superare le barriere della comunicazione (le asperità del percorso verso la montagna) iscritte nella dimensione fisica, emotiva, psicologica, sociale, etica ed antropologica (ecco un’altra ragione della necessità di competenze multidisciplinari nei servizi di primary health care) e trovare, provando e riprovando, strade alternative, innovative, per superare le barriere. Il tutto nella convinzione che una persona ha tutto il diritto di rifiutare per scelta consapevole, ma non è dato sapere se quel rifiuto è frutto della incapacità di comunicazione o di una scelta consapevole. Solo una analisi dei fattori associati alla non accettazione permette di intravedere gli “errori” di comunicazione e porvi rimedio, anche con soluzioni innovative stimolate dalla peculiarità del contesto.

Il cambiamento di paradigma: dal paternalismo direttivo alla partecipazione e all’empowerment
Siamo ben distanti dal principio ispiratore delle leggi di sanità pubblica del 1888, peraltro indicanti l’assunzione della responsabilità dello Stato riguardo l’Igiene Pubblica: questa doveva essere comandata, non semplicemente raccomandata. Da cui l’organizzazione, peraltro preziosa e innovativa al tempo, “militare” degli ufficiali sanitari, presenti in ogni singolo, per quanto piccolo, comune, coordinati dai medici provinciali, a loro volta diretti dal Commissariato alla Sanità del Ministero degli Interni.

I movimenti della seconda metà del ventesimo secolo, il più importante e radicale quello delle donne, ponendo all’ordine del giorno la centralità dell’autonomia della persona e delle comunità nel decidere di sé (esemplare lo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”) hanno profondamente messo in discussione il modello paternalistico direttivo dello stato sociale prefigurando un modello alternativo basato sulla partecipazione e sull’empowerment (promozione della salute). Giulio Maccacaro e Franco Basaglia hanno avuto il merito storico il primo nel riconoscere l’originalità fondativa dei gruppi omogenei operai che rivendicavano la competenza e il diritto di parlare della propria condizione (condivisa) e di avere parte attiva al controllo autonomo del proprio stato, il secondo, geniale, di riconoscere il diritto alla parola, a parlare di sé, a prendersi cura di sé, ai malati di mente, per definizione consolidata dei cosiddetti normali, incapaci di intendere e di volere. L’azione di Basaglia pose le basi per la liberazione dei malati di mente dall’inferno concentrazionario dei manicomi. Ma fu il movimento delle donne a rimettere in discussione alla radice le relazioni di potere, nelle relazioni di genere e a rivendicare con una forza straordinariamente efficace l’autodeterminazione e il rispetto del punto di vista di genere, disconoscendo qualunque autorità che avesse la pretesa di stabilire un pensiero unico, fornendo un esempio da manuale di biopolitica contro il biopotere. Il movimento delle donne ha avuto il merito di proporre genialmente servizi innovativi capaci di incorporare al contempo la nuova prospettiva del modello sociale di salute e un approccio relazionale basato sulla partecipazione e sull’empowerment: i consultori femministi autogestiti, a Roma, il più famoso, quello di via del Sabelli, fondato da Simonetta Tosi. Servizi con competenze multidisciplinari per cogliere la complessità sistemica delle condizioni di salute e per operare in modo integrato e sinergico, in alternativa ai sistemi tradizionali settoriali e frammentati. Servizi orientati alla promozione della salute, anticipando di tre lustri la rivoluzione copernicana rappresentata dalla Carta di Ottawa.

Le conquiste normative dei luminosi anni settanta del secolo scorso furono di tutto rilievo: la legge istitutiva dei consultori familiari pubblici (L. 405/75), la legge “Basaglia” per la chiusura dei manicomi e per l’istituzione di servizi innovativi per la salute mentale (L. 180/78), la legge per la legalizzazione dell’aborto basata sul riconoscimento del diritto della donna all’ultima parola (L. 194/78) e, finalmente, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (L. 833/78), fondata sul modello sociale di salute e sulla partecipazione dei cittadini attraverso le forme istituzionali di rappresentanza prossimali: i sindaci. La legge 833 ha come capisaldi la promozione della salute, l’assunzione di obiettivi indicati per legge (piani sanitari nazionali e regionali), la valutazione della qualità con gli osservatori epidemiologici regionali, coordinati dall’osservatorio epidemiologico nazionale costituito dall’Istituto Superiore di Sanità, organo tecnico-scientifico del SSN, con competenze di ricerca, consulenza per normazione, programmazione operativa e valutazione e per formazione.

Gli anni settanta del secolo scorso furono definiti anni di piombo perché venne privilegiata l’emergenza della lotta armata, invece che la rivendicazione dell’autodeterminazione. La lotta armata in realtà rappresentava una manifestazione di una modalità di rivolta vecchia e obsoleta e totalmente inefficace nel prospettare una società basata sulla autodeterminazione.

L’ultimo ventennio del secolo scorso, quelli sì anni bui, è stato caratterizzato da una reazione violenta contro il principio dell’autodeterminazione, contro la prospettiva della promozione della salute come capacità autonoma di controllo del proprio stato da parte delle persone e delle comunità, con la riproposizione sempre più spinta del paternalismo direttivo, sostenuto da sempre più potenti e famelici interessi autoreferenziali, con la prospettazione dell’ideologia della HL. Non è un caso che la forma più estrema di reazione si sia sviluppata con la medicalizzazione della nascita (4), con la finalità ultima di riacquisire il controllo sul corpo delle donne (e favorire interessi speculativi e autoreferenziali) proprio nella circostanza, il percorso della nascita, in cui si esplicita potenza ineguagliabile, quella di mettere al mondo nuove vite: si nasce perché donna lo vuole!

SostenibilitĂ  dei servizi sanitari pubblici, quali i punti di forza delle strategie di sanitĂ  pubblica
Se oggi i servizi sanitari nazionali pubblici e universali vengono messi in discussione ciò è a causa degli sprechi dovuti a overdiagnosis e overtreatment, fenomeni particolarmente odiosi nelle circostanze in cui si strumentalizza una comprensibile ricerca della sicurezza nel contesto di condizioni generalmente fisiologiche, come è il caso del percorso nascita e l’età evolutiva, o in quelle in cui la precarietà della salute si manifesta più diffusamente ma gli interventi diagnostico-terapeutici proposti sono a fortissimo rischio di inappropriatezza, come nell’età avanzata. Non a caso tali condizioni vengono considerate aree deboli della popolazione.

Focalizzare l’attenzione sulle prestazioni e sulla HL favorisce il rifiuto sistematico della valutazione degli esiti e, quindi, il ruolo di taumaturghi dei professionisti della salute. Si comprende come in tale prospettiva il paternalismo direttivo divenga essenziale perché si accettino proposte di interventi diagnostico-terapeutici non basati su valide prove scientifiche o sostenuti da prove acquisite con procedure pseudoscientifiche come sono spesso i trial clinici randomizzati sponsorizzati dalle multinazionali, in cui si usano end point secondari, si considerano contesti fortemente limitati, si nascondono dati essenziali sugli effetti collaterali (2). Allo spreco di risorse dovute all’overdiagnosis e all’overtreatment si aggiungono le ruberie e gli sprechi dovuti a fenomeni corruttivi. Solo una valutazione continua della qualità attraverso validi indicatori di processo, di risultato e di esito può mettere un freno agli sprechi e rendere il sistema sostenibile. La PHL permette alla comunità di esercitare un controllo sulla qualità, se competente a valutare con gli indicatori adatti la salute della comunità stessa.

Quali sezioni di popolazione coinvolgere come punti di forza per determinare processi di cambiamento nella comunità intera? Non vi è dubbio che chi si interroga più frequentemente nella gestione e governo della vita quotidiana, chi sperimenta il cambiamento, a partire dal cambiamento del proprio corpo, sono le donne e l’età evolutiva. Quest’ultima particolarmente prioritaria perché esposta a processi di formazione e, quindi, in grado, più che qualunque altra condizione, di maneggiare metodi e strumenti per la riflessione e il recupero della memoria storica e per ottenere, gestire, comprendere, valutare le informazioni utili per trarne conseguenze per l’azione finalizzata ad assicurare beneficio alla comunità con decisioni di sanità pubblica. Quindi donne ed età evolutiva come settori forti della popolazione.

Siamo in un bel capovolgimento di prospettiva rispetto all’assunzione, intrisa di desiderio di esercizio di biopotere di considerarli fragili e meritevoli di essere messi sotto tutela. Riguardo le donne, pilastri delle famiglie, la loro gestione della vita quotidiana delinea un’assunzione di responsabilità operativa di cercare ed assicurare con le conoscenze e i mezzi disponibili il benessere dei propri cari. Inoltre, nella temperie attuale, l’esperienza della maternità, non più vista come destino ma piuttosto come scelta ed espressione di potenza, è senza dubbio l’esperienza più clamorosa di cambiamento sotto tutte le dimensioni. Massima è la disponibilità al cambiamento per assicurare successo all’impresa che non ha uguali, massime le potenzialità per la promozione della salute, massima la resa. Le competenze acquisite e le consapevolezze maturate si riverberano nel sistema delle relazioni affettive e sociali con straordinaria capacità di penetrazione.

L’età evolutiva in ogni sua fase può essere coinvolta a partire dagli interessi prioritari costituiti dalla sessualità e dall’affettività, veri e propri cavalli di Troia per una sollecitazione alla riflessione sulla memoria storica e sui vissuti locali da connettere alla memoria storica globale. Le “produzioni” incardinate nell’attività formativa curricolare, in primis nella forma drammatica, possono essere proposte alla comunità configurando lo scenario apparentemente paradossale dell’età evolutiva che “insegna” agli adulti, ponendo anche in questo caso le basi per la promozione della PHL.