Conciliazione [dir. lav.]

Diritto on line (2016)

Ilario Alvino

Abstract

Il termine conciliazione è utilizzato per designare: sia la procedura conciliativa, ossia il procedimento finalizzato a consentire alle parti di sperimentare la possibilità di raggiungere un accordo che dirima in via negoziale una controversia; sia il contratto che conclude il procedimento di conciliazione che ha avuto esito positivo. La voce illustra le regole che disciplinano le conciliazioni riguardanti le controversie relative ai rapporti di lavoro, approfondendo: le tipologie di controversie e di rapporti di lavoro interessati; i diritti dei quali il lavoratore può disporre; le ipotesi nelle quali la legge configura come obbligatorio l’obbligo di esperire il tentativo di conciliazione e quelle nelle quali lo stesso è facoltativo; le sedi presso le quali è possibile raggiungere un accordo conciliativo e il ruolo affidato all’organo di conciliazione; i requisiti di validità dell’accordo conciliativo.

La conciliazione delle controversie di lavoro

Il termine conciliazione è utilizzato in diverse branche dell’ordinamento giuridico con un duplice significato.

Da un primo punto di vista, il termine identifica la procedura conciliativa, ossia il procedimento finalizzato a consentire alle parti, fra le quali è sorta o potrebbe sorgere una controversia, di sperimentare la possibilità di raggiungere un accordo che dirima in via negoziale la lite. Il procedimento conciliativo si caratterizza (e si differenzia dalle trattative che precedono la stipulazione di qualunque contratto) per la presenza di un soggetto terzo ed imparziale (il conciliatore o l’organo di conciliazione), investito della funzione di dare assistenza alle parti nella valutazione delle reciproche posizioni al fine di stimolare la definizione negoziale della controversia, onde evitare che la medesima controversia giunga all’attenzione di un giudice ovvero, nel caso in cui la domanda sia già stata incardinata dinanzi all’autorità giudiziaria, per evitare la pronuncia di un provvedimento giudiziale.

Da un secondo punto di vista, il termine è però utilizzato anche per identificare il contratto che conclude il procedimento di conciliazione. In questa seconda accezione, la conciliazione differisce dall’arbitrato, poiché mentre la prima consiste in un accordo delle parti raggiunto tramite la funzione mediatrice del conciliatore, con il secondo le parti affidano la definizione della controversia ad un terzo (l’arbitro), la cui decisione (il cd. lodo) è accettata dalle parti assumendo così veste negoziale (per la definizione di arbitrato v. Cavallini, C., Arbitrato irrituale, in Diritto online Treccani, 2013).

La conciliazione, intesa sia come procedimento sia come atto conclusivo di quest’ultimo, assume un’importanza centrale nel diritto del lavoro. Ciò, non solo perché nel nostro ordinamento si sono succedute diverse norme di legge finalizzate ad incentivare la soluzione conciliativa delle controversie relative ai rapporti di lavoro, ma soprattutto poiché l’atto conciliativo costituisce tutt’oggi il principale strumento negoziale tramite il quale il lavoratore può validamente disporre dei diritti che gli derivano dall’applicazione delle disposizioni inderogabili (inderogabilità [dir. lav.]) dettate dalla legge o da contratti o accordi collettivi di lavoro.

In ragione della definizione di conciliazione poc’anzi enunciata, non saranno trattate in questa sede le ipotesi nelle quali l’ordinamento prevede che la risoluzione della controversia di lavoro possa essere raggiunta attraverso una procedura arbitrale (v. ad es. art. 7, l. 20.5.1970, n. 300).

Le controversie conciliabili

Il sistema delle regole poste dal nostro ordinamento giuridico a protezione del lavoratore subordinato, in quanto soggetto debole del rapporto di lavoro, trova uno dei suoi pilastri fondativi nel principio per cui il lavoratore non ha la piena e totale disponibilità dei diritti che lo stesso maturi in ragione dello svolgimento del rapporto.

Il primo comma dell’art. 2113 c.c. sancisce, invero, che «le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., non sono valide».

Tale regola, introdotta con la riforma dell’art. 2113 c.c. ad opera dell’art. 6, l. 11.8.1973, n. 533, ha lo scopo di rendere effettive le tutele imperativamente poste dall’ordinamento a protezione del lavoratore. Tali tutele sarebbero, infatti, prive di una reale efficacia protettiva se, una volta attribuito un determinato diritto al lavoratore, questi avesse piena possibilità di disporne.

Il principio di indisponibilità dei diritti del lavoratore enunciato dall’art. 2113 c.c. non è però assoluto. La norma citata dichiara efficace l’atto di disposizione in due ipotesi, nelle quali si verificano condizioni tali da far considerare reale e non coartata la volontà di disposizione del diritto espressa dal lavoratore.

L’atto, inizialmente invalido, diviene idoneo a produrre l’effetto dispositivo se non viene impugnato entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero entro sei mesi dalla data di sottoscrizione se l’atto è compiuto dopo la risoluzione del rapporto di lavoro (art. 2113, co. 2, c.c.). Ciò poiché, decorso tale termine, l’ordinamento presume che il lavoratore, non trovandosi più in condizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro, abbia avuto il tempo sufficiente per maturare senza costrizioni la scelta di non impugnare l’atto, confermando così indirettamente la propria volontà di rinunziare o transigere il diritto.

L’atto dispositivo è invece valido sin dall’inizio in un’unica ipotesi: ossia quella nella quale la rinunzia o la transazione siano sottoscritte nell’ambito di una conciliazione intervenuta ai sensi degli artt. 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater, c.p.c. o ai sensi dell’art. 31, co. 13, l. n. 183/2010.

La sottoscrizione dell’accordo dinanzi ad uno di tali soggetti (cd. “sedi protette” o “sedi assistite”, sulle quali v. infra, § 5) fornisce la garanzia che la volontà di disporre del diritto, manifestata dal lavoratore nei termini previsti dall’accordo, è reale ed è stata espressa liberamente, senza coartazione da parte del datore di lavoro.

Perché trovi applicazione il regime poc’anzi enunciato, e poiché il lavoratore possa dunque validamente disporre dei propri diritti in sede conciliativa, l’art. 2113 c.c. richiede, da un lato, che il diritto oggetto dell’atto riguardi uno dei rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c., e, dall’altro, che del diritto oggetto della rinunzia o della transazione sia effettivamente titolare il lavoratore e che quel medesimo diritto sia già entrato nel patrimonio di quest’ultimo.

Il lavoratore potrà dunque porre in essere un valido atto dispositivo ai sensi dell’art. 2113 c.c. soltanto in quanto lo stesso abbia ad oggetto un diritto già maturato (è dunque priva di effetti la rinuncia ai cd. diritti futuri), mentre non potrà mai riguardare la modifica di una regola applicabile al rapporto e prevista da una delle citate disposizioni inderogabili (Cass., 8.9.2011, n. 18405). In quest’ultimo caso, invero, l’accordo siglato dal lavoratore sarebbe radicalmente ed inevitabilmente nullo, poiché avrebbe ad oggetto non un diritto, ma l’applicazione di una regola che, in quanto inderogabile, non può essere modificata dalle parti del rapporto in senso peggiorativo per il lavoratore (Cass., 26.5.2006, n. 12561).

Inoltre, poiché, come detto, il lavoratore può disporre solo di diritti di cui sia titolare, egli non potrà, ad esempio, rinunciare al versamento dei contributi previdenziali dovuti in ragione della prestazione resa trattandosi di un diritto sottratto alla disponibilità del lavoratore e il cui atto dispositivo è inefficace nei confronti dell’ente previdenziale. Ciò di cui il lavoratore in questo caso potrà disporre saranno soltanto le conseguenze patrimoniali del mancato o irregolare versamento dei contributi (Cass., 13.3.2009, n. 6221).

Da prospettiva inversa, ma per le medesime ragioni, non possono produrre alcun effetto dispositivo di diritti le cd. transazioni collettive. Con questo termine si denominano infatti gli accordi, stipulati tra il datore di lavoro o le associazioni datoriali e le organizzazioni sindacali, aventi ad oggetto diritti che siano già entrati nel patrimonio del lavoratore in virtù dell’applicazione di una norma inderogabile. Tali accordi non possono produrre alcun effetto nei confronti del lavoratore titolare del diritto, cosicché la transazione collettiva costituisce piuttosto una sorta di proposta di risoluzione della controversia rivolta al lavoratore, per la cui efficacia è necessariamente richiesta l’adesione di quest’ultimo.

Rinunzie, transazioni e ruolo del conciliatore

Affinché l’atto dispositivo possa essere considerato immediatamente valido ed efficace, ai sensi dell’art. 2113, co. 4, c.c., è necessaria l’esistenza di una controversia fra le parti, almeno potenziale, che l’accordo conciliativo mira a risolvere e che all’interno dello stesso deve essere identificata (cfr., ex plurimis: Cass., 22.5.2008, n. 13217).

Secondo presupposto di validità del negozio abdicativo è che l’accordo siglato in sede conciliativa assuma i caratteri del contratto di transazione e che le dichiarazioni con le quali il lavoratore dispone dei propri diritti posseggano i requisiti di una rinuncia.

L’accordo conciliativo dovrà dunque possedere i requisiti richiesti dall’art. 1965 c.c. e, quindi, in esso dovrà essere identificata la controversia insorta (o che potrebbe insorgere) fra le parti con riferimento ai diritti nascenti dal rapporto di lavoro e derivanti da una norma inderogabile applicabile al medesimo rapporto (Cass., 23.10.2013, n. 24024), nonché i termini dello scambio di “reciproche concessioni” fra le parti. Ed invero, laddove manchi l’elemento dell’aliquid datum, aliquid retentum, essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile (Cass., 4.10.2007, n. 20780). A ciò consegue che le reciproche concessioni devono essere commisurate e valutate in rapporto alle reciproche pretese e contestazioni, in modo tale che la transazione, in quanto contratto a prestazione corrispettive, manifesti una reciprocità dei sacrifici assunti dalle parti. Affinché tale requisito sia integrato non è però necessaria l’esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni (Cass., 8.4.2014, n. 8191; v. anche Cass., 28.7.2015, n. 15874).

La dichiarazione del lavoratore assume poi valore di rinuncia o di transazione solo laddove risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento, che la stessa sia stata sottoscritta dal lavoratore medesimo con la consapevolezza di disporre così di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (Cass., 15.9.2015, n. 18094; Cass., 28.8.2013, n. 19831). Non è dunque sufficiente una mera quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa, poiché questa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di qualsiasi efficacia negoziale (tra le altre v.: Cass., 31.1.2011, n. 2146; Cass., 20.1.2003, n. 729; Cass., 17.5.2006, n. 11536; Cass., 1.6.2004, n. 10537.).

L’accertamento circa l’espressione di una reale volontà abdicativa da parte del lavoratore costituisce oggetto del giudizio di merito, censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri dell’ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione (Cass., 28.8.2013, n. 19831).

Per garantire che tale consapevolezza vi sia e che la volontà dismissiva espressa dal lavoratore sia reale, l’ordinamento attribuisce un ruolo particolarmente importante all’organo di conciliazione. La funzione che deve assolvere quest’ultimo è infatti quella di prestare assistenza alle parti nella definizione dell’accordo conciliativo, con la finalità, in particolare, di accertare che la parte debole del rapporto (il lavoratore) abbia individuato esattamente il diritto al quale rinuncia ed il corrispettivo che per questo gli viene attribuito.

L’assistenza resa dall’organo conciliativo costituisce la condizione che consente di superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore, altrimenti presupposto dalla disciplina che sancisce l’invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore ai sensi dei primi tre commi dell’art. 2113 c.c. (Cass., 19.8.2004, n. 16283; Cass., 18.8.2004, n. 16168; Cass., 26.7.2002, n. 11107). A pena di invalidità, la conciliazione deve quindi essere stata sottoscritta in presenza dell’organo di conciliazione (Cass., 23.10.2013, n. 24024; Cass., 10.2.2011, n. 3237; Cass., 11.12.1999, n. 13910, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 575, con nt. di P. Tullini), il quale deve aver svolto un ruolo attivo di supporto alle parti finalizzato a ripristinare una reale situazione di parità, a tutela del consenso consapevole del lavoratore (Cfr. Cass., 10.2.2011, n. 3237; Cass., 22.5.2008, n. 13217; Cass., 3.9.2003, n. 12858, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, 183, con nt. di I. Senatori; Cass., 3.4.2002, n. 4730; Cass., 13.11.1997, n. 11248).

Il verbale di conciliazione costituisce immediatamente titolo esecutivo se sottoscritto in sede giudiziale (art. 185, co. 3, c.p.c.), altrimenti, in caso di conciliazione sottoscritta in una delle altre sedi, è dichiarato esecutivo con decreto dal giudice su istanza della parte interessata, accertata la sola regolarità formale dello stesso (art. 411 c.p.c.).

Il tentativo facoltativo e il tentativo obbligatorio di conciliazione

L’art. 36, d.lgs. 31.3.1998, n. 80, come poi modificato dall’art. 19, d.lgs. 29.10.1998, n. 387, modificando l’art. 410 c.p.c., istituiva, con il primario scopo di ridurre il contenzioso in materia lavoristica, il cd. tentativo obbligatorio di conciliazione per ogni domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituiva condizione di procedibilità della domanda in giudizio.

L’obbligatorietà del tentativo di conciliazione si è però presto rivelata insufficiente a favorire la soluzione conciliativa delle liti e a realizzare lo sperato effetto deflattivo delle controversie. La pratica ha invero presto dimostrato, da un lato, che gli uffici territoriali del Ministero del lavoro non erano in grado di gestire l’elevato numero di domande, e, dall’altro, che gli stessi uffici non erano in grado di assolvere ad una reale e proficua funzione di mediazione per la ricerca di una soluzione conciliativa, anche per il mancato possesso di competenze specifiche da parte dei suoi funzionari.

A fronte del conclamato fallimento del meccanismo della conciliazione obbligatoria, l’art. 31, l. 4.11.2010, n. 183 ne ha disposto l’abrogazione, rendendo l’istanza per l’espletamento del tentativo di conciliazione meramente facoltativa per qualunque controversia relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c.

Il tentativo facoltativo di conciliazione può essere esperito dinanzi alle commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni territoriali del lavoro (v. infra, § 5.1), in sede sindacale (v. infra, § 5.2) ovvero dinanzi ad una commissione di certificazione (v. infra, § 5.3). Il tentativo di conciliazione è inoltre esperito dal giudice investito della controversia nell’udienza di discussione della causa (v. infra, § 5.4).

Le sedi presso le quali è possibile sottoscrivere un accordo conciliativo costituiscono dunque un numero chiuso, selezionato dal legislatore in maniera tale che la conciliazione intervenga dinanzi ad un soggetto qualificato che dia garanzie di terzietà ed imparzialità, con lo scopo di assicurare che la volontà del lavoratore di disporre del diritto sia espressa in modo libero e scevra da condizionamenti.

La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione avanzata in sede stragiudiziale prima dell’avvio del processo, in qualunque sede proposta, interrompe la prescrizione  e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza (art. 410, co. 2, c.p.c.).

L’ordinamento però, in tre ipotesi, pur dichiarando la facoltatività del tentativo, ne valorizza la funzione con lo scopo di incentivarlo. In tali casi, le parti rimangono libere di intraprendere o meno il tentativo di conciliazione, ma nell’eventualità in cui le parti medesime raggiungano un accordo per la soluzione bonaria della controversia accedono a specifici vantaggi.

Il primo caso è quello previsto dall’art. 6, d.lgs. 4.3.2015, n. 23, il quale individua nelle cd. sedi protette e nella procedura conciliativa lo strumento tramite il quale il datore di lavoro ha possibilità di offrire al lavoratore, assunto con contratto a tutele crescenti e che sia stato licenziato, un importo quale corrispettivo della rinuncia all’impugnazione dell’atto datoriale di risoluzione del rapporto. Il vantaggio per le parti è rappresentato dal fatto che l’importo oggetto della transazione, la cui accettazione realizza la risoluzione bonaria della controversia sul licenziamento, non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.

La seconda fattispecie è quella prevista dall’art. 54 d.lgs. 15.6.2015, n. 81, la quale mira incentivare la cd. stabilizzazione dei lavoratori impiegati con contratti di lavoro autonomo o con contratti di collaborazione coordinata e continuativa. La disposizione citata, infatti, prescrive l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro (fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente all’assunzione) per le ipotesi in cui il committente assuma il collaboratore con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato della durata di almeno 12 mesi. Costituisce condizione per l’estinzione dell’illecito il fatto che il collaboratore sottoscriva, presso una delle sedi protette, un accordo conciliativo avente ad oggetto la rinuncia definitiva a contestare la qualificazione giuridica del rapporto pregresso, nonché ad intraprendere qualunque altra azione avente ad oggetto diritti connessi alla controversia sulla qualificazione.

La terza ed ultima ipotesi è prevista in materia di ispezioni sul lavoro dall’art. 11 d.lgs. 23.4.2004, n. 124 e persegue una duplice finalità: offrire agli uffici ispettivi uno strumento per gestire più celermente le ispezioni attivate a seguito di denuncia, al fine di focalizzare l’attività sulle ispezioni programmate; favorire la chiusura celere dell’accertamento nelle ipotesi in cui l’ispettore ravvisi le condizioni per una soluzione transattiva della controversia. Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro accetti la conciliazione, il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi dovuti in relazione al periodo lavorativo riconosciuto dalle parti, nonché il pagamento delle somme dovute al lavoratore, estinguono il procedimento ispettivo ed il verbale di accordo produrrà gli effetti di cui all’art. 2113, co. 4, c.c.

Il principio di facoltatività del tentativo di conciliazione incontra, infine, due eccezioni.

La prima riguarda l’ipotesi in cui un datore di lavoro, avente i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, co. 8, l. n. 300/1970, intenda procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore assunto prima del 7.3.2015 (cfr. art. 3, co. 3, d.lgs. n. 23/2015). L’art. 7, l. 15.7.1966, n. 604 prescrive che i datori di lavoro che posseggano tali requisiti e che intendano procedere al licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo, debbano previamente avviare una procedura dinanzi alla commissione di conciliazione costituita presso la DTL del luogo in cui il dipendente presta la sua opera. La procedura disciplinata da quest’ultimo articolo ha come fine primario quello di indurre le parti, tramite la mediazione della DTL, a ricercare soluzioni che possano evitare il licenziamento. Essa può però assumere una funzione conciliativa nell’ipotesi in cui non siano reperibili soluzioni alternative al licenziamento; in tal caso la conciliazione mira a far raggiungere alle parti un accordo nel quale il lavoratore acconsenta alla risoluzione del contratto (accettando il licenziamento o concordando una risoluzione consensuale) quale corrispettivo di specifiche concessioni del datore di lavoro. L’eventuale violazione della prescritta procedura non incide sull’efficacia risolutiva del licenziamento, ma configura il diritto del lavoratore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, compresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto tenuto conto della gravità della violazione formale e procedurale commessa dal datore di lavoro (art. 18, co. 6, l. n. 300/1970).

La seconda ipotesi nella quale la legge sancisce l’obbligatorietà dell’esperimento del tentativo di conciliazione è relativa alla domanda proposta avverso i provvedimenti di certificazione dei contratti (Certificazione dei contratti di lavoro) resi da una commissione di certificazione. L’art. 80, co. 4, d.lgs. 10.9.2003, n. 276, prescrive infatti l’obbligo di esperire un preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione in capo a chiunque intenda presentare dinanzi all’autorità giudiziaria un ricorso volto a contestare il provvedimento di certificazione del contratto per erronea qualificazione, per difformità fra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione o per vizio del consenso. In questo caso, l’esperimento del tentativo di conciliazione assume le caratteristiche di condizione di procedibilità della domanda, cosicché il giudice investito dell’eventuale controversia che rilevi la mancata proposizione del tentativo dovrà sospendere il processo e fissare termine alle parti affinché vi provvedano. La commissione competente dinanzi al quale deve essere presentata l’istanza di espletamento del tentativo di conciliazione è la medesima commissione che ha emesso il provvedimento di certificazione contestato.

Le sedi cd. “protette”

La conciliazione in sede amministrativa

Il tentativo di conciliazione può essere promosso dinanzi alle commissioni di conciliazione costituite presso le DTL, nel rispetto dei criteri di competenza territoriale dettati dall’art. 413 c.p.c.

L’art. 410 c.p.c. prescrive che la commissione sia composta dal direttore della DTL o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo in qualità di presidente e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative al livello territoriale. Normalmente, al fine di agevolare lo smaltimento delle richieste, le commissioni di conciliazione, in attuazione della previsione dell’art. 410, co. 4, c.p.c., affidano l’espletamento dei tentativi di conciliazione a proprie sottocommissioni presiedute dal direttore della DTL o da un suo delegato e da almeno un rappresentante dei datori di lavoro e almeno un rappresentante dei lavoratori.

L’art. 410 c.p.c. prescrive poi una specifica procedura per l’espletamento del tentativo di conciliazione. In particolare, a seguito della richiesta, la parte che intenda accettare la procedura conciliativa deve depositare presso la commissione di conciliazione, entro 20 giorni dal ricevimento della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Il mancato deposito della memoria va inteso come rifiuto ad accettare la procedura conciliativa, con l’effetto di rendere libere le parti di adire l’autorità giudiziaria.

La disposizione fissa poi l’obbligo in capo alla commissione di conciliazione di fissare entro i 10 giorni successivi al deposito della memoria l’incontro per l’esperimento del tentativo di conciliazione che dovrebbe concludersi entro i successivi 30 giorni. I termini indicati vanno comunque considerati ordinatori, non essendo prevista una specifica sanzione per la loro violazione.

Se il tentativo di conciliazione ha esito positivo, viene redatto il relativo verbale che riporterà i termini dell’accordo transattivo raggiunto dalle parti (sul quale v. supra, § 4).

Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, l’art. 411, co. 2, c.p.c. prevede che la commissione debba formulare una proposta alle parti per la bonaria definizione della controversia. La formulazione della proposta può assumere rilevanza nell’eventuale successivo giudizio, poiché il giudice investito della controversia può tenere conto nella sua decisione della proposta formulata e della sua mancata accettazione dalle parti senza adeguata motivazione, almeno ai fini della condanna alle spese di lite.

La formulazione della proposta non si configura comunque come un obbligo, non essendo prevista alcuna sanzione per la sua assenza. Piuttosto si deve ritenere che rientri nella discrezionalità della commissione di conciliazione valutare se sia possibile formulare una proposta di soluzione bonaria, tenuto conto dell’oggetto della controversia e delle posizioni espresse dalle parti.

La conciliazione in sede sindacale

L’art. 412 ter c.p.c., come modificato dall’art. 31, co. 6, l. 183/2010, prescrive oggi che «la conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’art. 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative».

Il ricorso alle procedure di conciliazione previste dal contratto collettivo è, dunque, facoltativo, restando la parte libera di avviare il tentativo di conciliazione dinanzi alla DTL o alle commissioni di certificazione.

L’art. 412 ter c.p.c. afferma in maniera chiara che l’unica conciliazione in sede sindacale idonea a produrre gli effetti previsti dall’art. 2113, co. 4, c.c. è quella stipulata nel rispetto delle modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. È escluso, dunque, che ai fini della piena validità dell’atto dispositivo posto in essere dal lavoratore sia sufficiente l’assistenza di un rappresentante sindacale al quale il lavoratore abbia conferito mandato. In quest’ultima ipotesi, laddove non siano rispettate le procedure previste dai contratti collettivi individuati dall’art. 412 ter c.p.c., il verbale sarebbe dunque impugnabile ai sensi dei co. 2 e 3 dell’art. 2113 c.c.

Il fatto che ai fini della validità della conciliazione non sia sufficiente l’assistenza di un qualunque rappresentante sindacale, ma sia necessario rispettare le procedure previste dai contratti collettivi menzionati, non esclude ovviamente il diritto del lavoratore di farsi assistere nella sede conciliativa costituita secondo le regole previste dal contratto collettivo dal rappresentante sindacale al quale scelga di conferire il mandato, qualunque sia il sindacato di appartenenza di quest’ultimo. E dunque anche se il sindacato in questione non sia, in ipotesi, firmatario del contratto collettivo che disciplina la procedura conciliativa. In tal caso, l’assistenza sarà prestata dal sindacalista al lavoratore, ma nell’ambito della procedura prevista dal contratto collettivo applicato al rapporto.

Già sotto il vigore del vecchio art. 411 c.p.c., dottrina e giurisprudenza si sono però chiesti se, ai fini della validità dell’accordo conciliativo, sia sufficiente che il lavoratore venga assistito, all’atto della stipulazione, da un qualunque rappresentante sindacale al quale il lavoratore abbia conferito mandato e la cui firma risulti registrata presso la DTL. Detto altrimenti, la questione riguarda la possibilità di ritenere valido l’accordo conciliativo in quanto sottoscritto dal lavoratore con l’assistenza del sindacalista, anche al di fuori delle procedure conciliative previste dai contratti collettivi individuati nell’art. 412 ter c.p.c.

Il dato letterale sul quale si fonda la tesi che ritiene sufficiente l’assistenza del sindacalista viene rinvenuto nel testo dell’art. 411 c.p.c., il quale, sia nel testo vigente sia in quello precedente alle ultime modifiche apportate dalla l. n. 183/2010, richiama il tentativo di conciliazione «svolto in sede sindacale». Il richiamo alla sede sindacale andrebbe in questa prospettiva interpretato come riferito a tutti gli accordi stipulati con l’assistenza di un sindacalista.

Tale soluzione non appare però condivisibile a fronte della chiara formulazione del già esaminato art. 412 ter c.p.c., il quale in maniera netta identifica l’unica sede sindacale presso la quale il lavoratore può validamente disporre dei propri diritti, in alternativa alle altre sedi individuate dal codice di rito e dalla l. n. 183/2010, in quella disciplinata dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Il richiamo alla sede sindacale contenuto nell’art. 411 c.p.c. va piuttosto interpretato come destinato a definire la disciplina da applicare per le conciliazioni intervenute presso la sede sindacale, come individuata all’interno dei contratti collettivi individuati dall’art. 412 ter c.p.c.

Infine, il verbale di conciliazione stipulato in sede sindacale all’esito della procedura conciliativa è soggetto all’onere del deposito presso la DTL a cura di una delle parti o per il tramite dell’associazione sindacale (art. 411, co. 3, c.p.c.). Tale obbligo riguarda esclusivamente la conciliazione raggiunta in tale sede, in quanto funzionale a consentire, da parte del direttore della DTL o di un suo delegato, il controllo sul possesso da parte dell’organo di conciliazione dei requisiti, poc’anzi esaminati, richiesti dall’art. 412 ter c.p.c. (cfr. al riguardo la nt. del Ministero del lavoro del 16.3.2016, n. 5199. Ma vedi già la circ. del Gabinetto n. 1138 del 17.3.1975).

È però opportuno precisare che l’adempimento dell’obbligo di deposito del verbale non costituisce condizione di validità del verbale di conciliazione (Cass. 23.4.1998, n. 4205), né l’avvenuto deposito è idoneo a sanare eventuali vizi dei quali sia affetto l’accordo conciliativo.

La conciliazione davanti alla commissione di certificazione

Nel ventaglio delle sedi presso le quali è possibile stipulare un accordo conciliativo idoneo a produrre gli effetti previsti dall’art. 2113, co. 4, c.c., devono essere annoverate anche le commissioni di certificazione costituite ai sensi dell’art. 76, d.lgs. n. 276/2003.

Le commissioni di certificazione sono investite della funzione di organo di conciliazione da due disposizioni.

La prima ipotesi, già considerata (cfr. supra, § 4), è quella prevista dall’art. 80, co. 4, d.lgs. n. 276/2003, il quale prescrive l’obbligo di esperire un preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione in capo a chiunque intenda presentare dinanzi all’autorità giudiziaria un ricorso volto a contestare il provvedimento di certificazione del contratto.

Oltre all’ipotesi appena considerata, le commissioni di certificazione possono poi essere investite del compito di espletare il tentativo di conciliazione con riferimento a qualunque altra controversia relativa ai rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. L’art. 31, co. 13, l. n. 183/2010 ha, infatti, equiparato le commissioni di certificazione alle altre sedi previste nell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., individuando nelle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 d.lgs. n. 276/2003 la sede presso la quale può essere esperito il tentativo facoltativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c.

Le commissioni di certificazione sono dunque investite della funzione conciliativa prevista dall’art. 410 c.p.c., senza però essere tenute a rispettare la specifica procedura prevista da quest’ultima disposizione. Le commissioni di certificazione potranno invero strutturare il procedimento conciliativo tenendo conto del contesto nel quale è istituita (ad es. presso l’università o un ente bilaterale) e dei soggetti che la compongono.

In conclusione è anche necessario chiarire quale rapporto intercorra fra la funzione di organo di conciliazione istituita dalla citata disposizione e la previsione contenuta nell’art. 82, d.lgs. n. 276/2003 che attribuisce alle sedi di certificazione la competenza «a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 c.c. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse». Quest’ultima disposizione pone rilevanti problemi interpretativi per almeno due motivi: a) non è chiaro se la disposizione si limiti ad identificare nelle commissioni di certificazione una ulteriore “sede protetta”; b) non chiarisce se tale certificazione sia idonea a conferire validità alle rinunzie e transazioni a norma dell’art. 2113, co. 4, c.c.

Per rispondere a tali quesiti si deve rilevare che il citato art. 80 d.lgs. 276/2003 non si limita ad attribuire il ruolo di “sede protetta” alle commissioni di certificazione, come peraltro dimostrato dal fatto che per ottenere tale risultato il legislatore è dovuto intervenire nel 2010 introducendo la previsione, poc’anzi esaminata, che consente l’esperimento del tentativo facoltativo di conciliazione anche in tali sedi. Piuttosto, l’art. 80 citato investe la commissione di certificazione della funzione di certificazione di un atto di rinunzia o di un accordo transattivo che, allora, per poter essere certificato, deve essere conforme alle previsioni di legge che ne garantiscono la validità. Può dunque essere chiesta la certificazione di un atto di rinunzia o di un accordo transattivo ai sensi dell’art. 82 d.lgs. 276/2003 soltanto nel caso in cui l’atto stesso non sia più contestabile per essere decorso il termine di impugnazione previsto dall’art. 2113, co. 3, c.c. ovvero per il fatto che l’atto o l’accordo è stato reso in una delle sedi protette previste dall’ordinamento. Ne consegue, in conclusione, che la certificazione delle rinunzie e transazioni ai sensi dell’art. 80 d.lgs. n. 276/2003 rileva non per la produzione degli effetti di cui all’art. 2113, co. 4, c.c. (posto che, come dimostrato, per poter essere certificate la rinunzia o la transazione devono essere già valide e dunque idonee a produrre quegli effetti), quanto piuttosto per fare in modo che per tali atti possano valere gli effetti del provvedimento di certificazione: ossia l’opponibilità dell’atto stesso ai terzi come ad esempio gli enti previdenziali e l’agenzia delle entrate (cfr. art. 79, d.lgs. 276/2003).

La conciliazione giudiziale

L’art. 420 c.p.c. prescrive al giudice, investito delle controversie relative ai rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., di tentare la conciliazione della lite nell’udienza fissata per la discussione della causa, formulando altresì alle parti una proposta transattiva o conciliativa.

La citata norma del codice di rito configura l’espletamento del tentativo di conciliazione come un obbligo per il giudice, ma la sua mancanza non incide sulla validità dello svolgimento del rapporto processuale restando ininfluente, e di conseguenza non denunciabile in sede di legittimità, la mancata considerazione dell’omissione stessa da parte del giudice del gravame, ove lamentata in sede d’appello. Tale conclusione è indotta dalla considerazione che, pur prescrivendo l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, il giudice di merito resta libero di valutare, anche in relazione agli assunti delle parti, se tale espletamento si configuri di qualche potenziale utilità, o sotto il profilo del buon esito del tentativo o al fine di acquisire elementi di convincimento per la decisione (Cass. 18.8.2004, n. 16141; Cass. 20.6.2003, n. 9908).

Da tale principio può dunque inferirsi che anche la formulazione di una proposta transattiva da parte del giudice costituisce l’oggetto di una scelta rimessa alla sua discrezionalità. La sua mancanza non comporterà dunque un vizio del procedimento rilevabile in sede di impugnazione. Laddove viceversa il giudice opti per la formulazione di una proposta conciliativa, tale decisione potrà avere conseguenze sulla decisione finale, incidendo, ad esempio, sul provvedimento di condanna alle spese di lite o sulla definizione dell’entità dell’eventuale risarcimento del danno. Il primo comma dell’art. 420 c.p.c. prescrive infatti che «il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio». In aggiunta a tale previsione, va ricordato inoltre che l’art. 91, co. 1, c.p.c. stabilisce che il giudice, il quale accolga la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa dallo stesso formulata, debba condannare la parte che l’ha rifiutata senza giustificato motivo al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta.

Fonti normative

Artt. 1965-1976 c.c.; art. 2103 c.c.; art. 185 c.p.c.; artt. 409-412 quater c.p.c.; art. 420 c.p.c.; art. 7 l. 15.7.1966, n. 604; artt. 76, 80, co. 4, e 82 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 11 d.lgs. 23.4.2004, n. 124; art. 31 l. 4.11.2010, n. 183; art. 6 d.lgs. 4.3.2015, n. 23; art. 54 d.lgs. 15.6.2015, n. 81.

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